Marco (Pasi) è venuto al mondo, è cresciuto e ha messo su famiglia in zona 9.
“Sono nato il 27 aprile del 1946”, esordisce nel nostro incontro, in una delle sale dell’Associazione Anteas di cui è volontario. Nato sotto il segno del toro, per quello sono zuzzerellone, giocoso”.

Brillante, uomo di spirito, Marco si racconta con facilità.
“Sono nato in via Cola Montano, ho abitato in Paolo Bassi, mi sono sposato e sono andato in via Lario e poi sono venuto qui, dove abito ora. Una vita in pochi chilometri quadrati. Se mi chiede in che ospedale sono nato, sa che non lo so? Forse sono nato in casa… sì sono nato in casa perché non me l’hanno mai detto”.

Ha anche lavorato sempre in zona?
“Il lavoro è stato completamente differente da quello che era stato programmato. Ho fatto le prime due elementari in Via Dal verme poi sono stato in collegio, al San Carlo, fino alla seconda media e ho fatto l’esame di terza in una scuola privata in Viale Marche; mi sono diplomato ragioniere e ho fatto quattro anni di Cattolica, Economia e Commercio e poi… purtroppo il militare mi ha bloccato e non mi sono laureato.
Da lì, ho fatto il rappresentante in Lombardia per 32 anni di un’azienda conosciuta in tutta Italia, la Gio’ Style: ho cominciato con i grandi magazzini. Facevo una media di 60/70 mila chilometri all’anno, cambiavo 2 macchine ogni 3 anni, fino a che sono andato in pensione”.

Oggi che è in pensione vive la sua zona?
L’ho vissuta, stravissuta, rivissuta e la vivo. Facevo da bambino la stessa strada, l’ho fatta da ragazzo e da grande, se spostano un mattone io me ne accorgo, anche involontariamente. La vita che si faceva da bambini era proprio in mezzo alla strada, giocavamo da una parte della via con una pallina contro un muro che stava dall’altra parte.

Quali altri giochi ricorda?
Uno dei migliori era quello dei tollini: ci si metteva dentro il sughero dei tappi delle bottiglie del vino e sopra si incollava una fotografia di un ciclista, Bartali o Coppi (l’ho avuto anche a casa mia Coppi…), e poi giocavamo in mezzo ai ruderi della guerra. Ho visto la ricostruzione mattone su mattone. Giravamo tantissimo con le biciclettine e per noi l’estero era arrivare in Viale Brianza; quel ponte di Viale Brianza l’ho visto costruire con le macerie, come han fatto con la montagnetta di San Siro.

Quanto è importante conoscere la storia della propria città, della propria zona?
E’ importante per me, agli altri non gliene frega niente.
Quando, per esempio, vado a dire a qualcuno che all’inizio di via Lario sulla destra all’incrocio con via Arese c’era una famosissima trattoria, siccome non la vedi non ti interessa… però a me rimane, perché noi all’epoca andavamo lì a mangiare.
O, ancora, in piazzale Segrino dove c’è il giardinetto, c’era una casa di ringhiera a un piano e c’era una famiglia di un bambino che veniva all’asilo con me e che noi chiamavamo il gigante: era altissimo e il padre un bestione. Andavamo lì a giocare, giocavamo quasi sempre all’interno delle case di ringhiera, nei cortili, anche se non era casa nostra, perché i bambini si conoscevano tutti. Ci incontravamo a scuola e poi andavamo lì.

Adesso è diverso?
Se i genitori non si conoscono… Da bambino mi ricordo che il Natale e il Capodanno lo facevamo tutti insieme, giù da basso con la portinaia e ho ancora le fotografie. Tutto aperto e chi voleva veniva.

E’ una dimensione che le manca?
Ormai alla mia età non mi manca più niente, quello che dovevo fare l’ho fatto, mi son divertito. Forse io sono stato anche uno dei più fortunati perché mio papà a un certo punto i soldi li ha fatti, sono uno che nel 1964 girava con la Ferrari. Ce n’erano solo 6 in Italia, e mio padre ne aveva una.

Com’era girare a Milano con la Ferrari?
Eri un signore e la cosa che mi piace più di tutto è che i signori erano considerati così, ma non con la cattiveria che ci può essere oggi. Erano tutti umili come mio padre.
Lui giocava alle bocce con tutti: all’epoca la domenica c’era da fare la merenda, la donna della bocciofila faceva il lesso e farciva i panini, un bicchiere di vino e vai che si giocava e pagava chi aveva i soldi. Mio papà, un altro che si chiamava Quattrini e uno che si chiamava Pacconi. Chi non aveva una lira giocava e mangiava lo stesso.
Quell’epoca era diversa. Mio papà poteva essere considerato uno ‘diverso’, io non lo vedevo neanche, ma a me una sberla non me l’ha mai data nessuno, non mi ha mai sgridato nessuno, ero proprio all’interno di questi posti.
Giravo, mi sono divertito, avevo la mia biciclettina che mi aveva fatto fare Fausto Coppi perché avevo fatto la Mascotte al Vigorelli nei campionati del mondo. E non me l’ha rubata mai nessuno.

Adesso com’è Milano?
“Il milanese purtroppo non è intelligente, ci siamo fatti prevaricare da tutti, il nostro dialetto è metà austriaco e metà francese, un miscuglio.
Una volta el mestee pusse impurtant l’era… i mestieri più importanti erano il ghisa, il manetta (il tramviere) e il taxista e sono andati. Il vero milanese è andato, non esiste, ci siamo adattati. E, poi, noi non abbiamo una cultura nostra. Sì, abbiamo delle tradizioni, la polenta… però adesso c’è questo miscuglio, se guardum inturn e… ho trovato una volta un idraulico che parlava milanese e mi è venuto da dire, ‘ma cos’è italiano anche lei?’”

Se Milano oggi potesse parlare cosa direbbe?
“‘Come siamo combinati’, perché Milano non era così. Prima di tutto, per quanto mi riguarda, non c’era il povero e il ricco. C’erano le belle macchine, c’erano le 500 e c’erano anche le lambrette. Poi magari un altro lo traduce in un altro modo. Siamo andati così in basso che più in basso non si può”.

Lei cosa chiederebbe a Milano? 
“Selezionare”.

In base a cosa? 
“Non lo so, ma siamo in troppi…”.

Se fosse una persona, Milano che carattere avrebbe?
“La sua bella maschera tipica milanese: il Brighella, uno come me, giocoso a cui va bene tutto”.

Se lei dovesse dare un colore a Milano?
“Grigio fumo di Londra”.

Un sapore?
“Quello della polenta con il cotechino”.

Un odore?
“Un profumo abbastanza dolce, come quello dello zafferano”.

Vede natura a Milano?
Vedo Milano come una bella pianta, un bel noce.

Come si sente in questa città?
Mi sento bene perché non vedo, non sento e non parlo. Scherzi a parte, mi sento benissimo e poi guai a toccarmi Milano.

Ce l’ha un luogo preferito?
Viale Borgogna dove ho fatto il giovane e andavo al night… (ride). No dai, l’immagine preferita è quella del Castello Sforzesco e del Duomo.

Anche Via Borgogna vale…
“.. e Santa Tecla, Via Senato, ho fatto la mia gioventù lì. All’epoca c’erano i San Babilini. Sa chi erano? Quelli vestiti con abito fumo di Londra o a righe, camicia rosa e cravatta a pois. Ecco io ero uno di quelli”.

Tornando a oggi, cosa vede dalla sua finestra?
“Prima che mi mettessero davanti un palazzo della Torno, vedevo il Monte Rosa e il Monte Bianco. Il Monte Rosa è sparito, si vede un pezzettino di quello Bianco. E lo Scalo Farini”.

E secondo lei tra 100 anni cosa si vedrà? 
“Conosco il progetto, quindi, un laghetto, giardini, piante, centri commerciali e grattacieli”.

Come li vede i grattacieli di Milano?
“Tutti devono lasciare un segno nel loro tempo”.

Lei ce l’ha un sogno legato a questa città?
“E’ tutto basato sull’età. Non ho più la ‘carriera’ davanti, la mia prospettiva è quella di fare una vecchiaia in grazia di Dio, se riesco a farla. Non posso neanche sognare di vedere mio nipote che diventa grande, non faccio in tempo, perché la selezione naturale non mi da più il tempo di fare niente. Devo prendere oggi come fosse l’ultimo giorno. Se lei pensa che qui stiamo facendo un funerale alla settimana…”.

Parla di un nipote, ha figli quindi?
“Due figli, un maschio e una femmina. Sono stato nelle statistiche.
La femmina ha un maschio e una femmina e abita accanto a me, siamo sullo stesso piano. Siamo sempre lì, dopo viale Brianza ci vuole il passaporto e parlano un’altra lingua. Il maschio invece ogni tanto è a New York, ogni tanto a Londra, a Venezia… è un globe trotter”.

L’incontro si avvia alla fine, ci sono però ancora due ricordi che Marco vuole condividere. Uno ci porta all’estero, l’altro quasi sotto casa. Il primo riguarda Charlie Chaplin.
“Lo abbiamo avuto due giorni con noi – mi dice con soddisfazione -. Eravamo in un ristorante a Riccione è arrivato lui con Oona (la quarta moglie, ndr) e fuori c’era la mia Ferrari, noi in principio non lo avevamo riconosciuto e lui ha detto che gli sarebbe piaciuto conoscermi. Ci sono le foto su tutti i giornali di quei due giorni che Charlie Chaplin ha passato con un industriale di Milano. Mio papà lo ha portato in giro per Milano con la Ferrari, poi quando si è sposata mia sorella ci ha mandato il bigliettino degli auguri e, dopo che lui è morto, io sono andato a Vevey, in Svizzera dove viveva, a trovare Oona.

Con lo stesso entusiasmo, per il secondo ricordo Marco mi porta dalla Svizzera a Bruzzano.
“La sa la storia della bocciofila che c’è a Bruzzano – mi chiede? – Le ho detto che conoscevamo Fausto Coppi. La bocciofila si chiama Serse e Fausto coppi, ed è nostra, mia e di mio papà…”.

E, mentre ci salutiamo,  su queste parole, un’immagine si sovrappone a quella dell’uomo grande in dolcevita nero che ho davanti: quella di un ‘nani’, bambino nel dialetto milanese, che gira con la sua ‘Coppi’ in una Milano che, grazie ai suoi ricordi, ora conosco un po’ anch’io.

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