Giuseppe Luigi Orlandi (“detto Pino”) è nato a Calvignasco in provincia di Milano, in un giorno di primavera del 1941. Era il 23 marzo.
In quelle terre,
“nei paesini della bassa – ci racconta –, in mezzo alla nebbia e ai campi di grano maturo, con tutti quei bei papaveri a fare da cornice”, è vissuto fino a 28 anni.
Poi è venuto a Milano, dove oggi vive tra Rogoredo e Santa Giulia, poco lontano da Corvetto.

Malinconia?
“No”, risponde con sicurezza e un sorriso, mentre inizia la nostra chiacchierata.

Cosa l’ha portata a Milano?
“Il lavoro, perché dove vivevo era tutta zona agricola e chi ha studiato andava via, anche per avere una maggiore opportunità economica. Io ho fatto le medie per poter accedere a un liceo classico… poi è morto mio papà, ho dovuto cambiare tutti i miei progetti e a 15 anni ho iniziato a lavorare.
A me piaceva elettrotecnica, sono andato alla Tecno Masio Brown Boveri e lì con l’aiuto di tanti ingegneri sono stato avviato al settore e sono diventato collaudatore di tutte le parti elettriche concernenti gli impianti che vanno sulle centrali. Dopodiché, senza cambiare ditta ho cambiato lavoro. A me piaceva cambiare il lavoro non sono mai stato statico… sono andato a finire in un ufficio programmazione e per me è stato bellissimo. Poi, nel corso degli anni, mi sono occupato della gestione dei magazzini di tutta la parte elettrica, finché sono andato in pensione”.

Quando dice ‘mi piaceva cambiare lavoro’ parla di curiosità?
“Mi piace andare oltre, ancora adesso. Sin da bambino ho avuto il desiderio di volare e questo desiderio mi fa andare verso qualcosa di ignoto, di nuovo. La curiosità, più che altro, mi impone di andare oltre”.

Venire a Milano, dai campi di grano, è stato un po’ un andare oltre?
(Esita)…sì… però… cosa è successo, nel paesino si era un po’ chiusi culturalmente e mio papà, che era lungimirante, si è inventato di mandarmi in collegio a Torino dai Salesiani. Per me è stato veramente uno shock pazzesco, i primi 3 o 4 mesi è stato un disastro anche a livello didattico, dopo però è successa la disgrazia grande: quando facevo la seconda media è morto mio papà. Mia madre ha fatto di tutto per potermi portare a termine fino alla terza media, che mi è servita, e  poi ho dovuto cominciare a lavorare, con un percorso diverso, perché ero più portato per il classico.

Ha poi coltivato questa attitudine?
“Leggo tanto, diciamo che l’ha ripresa mia figlia, perché ha preso da me. Lei ha fatto scienze della comunicazione e poi ha studiato beni culturali”.

Lei aveva fratelli?
“Ero il primo di sei, è stato un po’ un dramma quando è mancato mio papà. Però, vede, il discorso è questo… in quel paese lì c’era ancora la vita conviviale, c’erano i nonni, gli zii, tutti i vari amici e mia mamma ha avuto un contorno di aiuti fantastico. Oggi qui a Milano sarebbe stato veramente drammatico”.

Una rete importante.
“Per questo ho sempre dentro questo concetto di vivere in un modo conviviale. Qui a Milano addirittura stiamo arrivando al single, è un po’ il contrario…”.

Torniamo ai tempi di Torino.
“A Torino, ho imparato il collegamento tra la vita rurale e la città e da lì ho portato tanto con me venendo a Milano, per cui non c’è stato un impatto troppo traumatico. Anche se a Milano, rispetto al mio Paese, qualcosa di negativo c’è: questo discorso che la città, o forse l’industria in sé, ha portato cambiamenti repentini per cui non si riesce a gustare  quello che viene proposto.  Oggi mi propongono una cosa, domani un’altra e questo è quello che non mi è mai andato giù: questa corsa al nuovo, senza gustare quello che già abbiamo”.

A proposito di cambiamenti, quando è venuto a Milano abitava nella zona dove è oggi?
“No, abitavo in viale Monte Nero, con tutta la famiglia quasi. Perché, tra l’altro, sono stato l’ultimo a uscire di casa, inconsapevolmente, mi sono preso un po’ le parti di mio papà. E’ venuto spontaneo e finché i miei fratelli non hanno trovato la loro strada, non sono riuscito ad andare fuori. Poi mia mamma mi ha aiutato tanto e io mi sono sposato a 40 anni: a Milano, con una collega di Vigevano. Prima abbiamo abitato nella casa di Monte Nero, il proprietario me l’ha proposta e io me la sono presa e l’ho ristrutturata. Però era piccola e quando sono arrivati Chiara e Gabriele  (i suoi figli, ndr) abbiamo pensato di trovare una casa migliore, abbiamo venduto in Monte Nero e nel 2000 abbiamo preso quella dove siamo oggi”.

Lei vive la città?
“Non ho mai vissuto Milano in pieno, ho sempre portato dietro quello che avevo vissuto al paese, anche se non ci sono tornato tanto. L’unica cosa che ho vissuto qui a Milano era l’aggregazione e l’ho trovata in parrocchia.  Lì, riesco a capire qualcosa del quartiere perché parlo con la gente, vedo le iniziative che vengono fatte fuori, ma non è che lo vivo proprio il quartiere. Corvetto, poi, è ancora più lontano e so che ci sono più problemi, i bulli e le varie bande. Però secondo me è un quartiere vivo sia dove abito io, sia al Corvetto”.

Vive con sua moglie?
“E i due figli. Loro sono usciti, rientrati, usciti e ultimamente sono rientrati. Cerchiamo di dare una direttiva ma non possiamo pretendere, perché le cose sono molte cambiate rispetto a quando eravamo giovani noi: loro sono in situazione più difficile anche per prendere decisioni e fare progetti. E’ già tanto che lavorano”.

Ci racconta la sua quotidianità?
“In casa sto poco e quando sono a casa devo essere attivo. Faccio volontariato (tra gli altri anche in Anteas, dove lo abbiamo conosciuto, ndr) e anche mia moglie lo fa, al Policlinico. Lo abbiamo deciso anche per non chiuderci. Io sono cresciuto in una famiglia con mio padre che era fantastico, una persona incredibile: era l’unico democristiano in un paese tutto comunista, i democristiani erano quelli un po’ facoltosi in quel paese lì.
Mi ricordo che quando avevo sei anni e c’erano le elezioni mi aveva portato a mettere i manifesti della DC, io con una bella latta di farina bianca impastata di acqua (sorride, ndr). Sa cosa è successo? Che mio papà ha preso più voti del sindaco eletto con i comunisti.
Non solo, dopo hanno insistito perché diventasse lui il presidente della cooperativa rossa e lui ha accettato. Ecco, da mio papà ho ricevuto questo: che bisogna avere un dialogo aperto con tutti. Ho ereditato questa cosa e sono contento perché ogni persona che ho di fronte per me è un patrimonio, perché c’è sempre qualcosa di nuovo da recepire.
Il mio vissuto è stato fantastico in campagna con i miei zii e i miei nonni, ogni vicenda era un motivo per crescere”.

Torniamo al suo rapporto con Milano, c’è un luogo per lei più significativo?
“Piazza del Duomo, mia moglie l’ho conosciuta lì. O meglio, la conoscevo ma la scintilla è scoccata lì”.

Se Milano potesse parlare cosa direbbe ai Milanesi?
“‘Col coeur in man!’. Io sono venuto ‘da fuori’ e ho avuto questa sensazione, mi ha dato il lavoro”.

Che carattere avrebbe?
“Tutto cuore”.

Come si sente in questa città?
“Mi sento bene. Milano per me è tanto, forse più del mio paese. Là c’era qualcosa di più familiare però restava lì, fermo, qui invece hai la possibilità di andare sempre avanti, scopri qualcosa di umano sempre diverso. Per esempio, arrivano gli stranieri, sono un problema però allo stesso tempo portano qualcosa di nuovo dal loro paese. Ogni incontro è un momento di crescita”.

Cosa le manca a Milano?
A me non manca più niente dalla vita, ho una grande apprensione per i giovani, perché mi sembra che al giorno d’oggi gli manchi tanto, ma forse quelli che mancano sono gli affetti.

Ha un sogno per Milano?
“Mi è difficile persino dirlo. Non sogno la pace perché lo ritengo troppo statico, sogno la gente che sorride quando si incontra: una apertura all’attenzione dell’altro. A volte sono sul marciapiede, ci sono due persone che tengono tutto lo spazio e non si spostano; invece ci sono quelli che stanno parlando e percepiscono o sono attenti e vedono che sta arrivando l’altra persona e si spostano. Questo è un piccolo particolare: l’attenzione. Non sono abituato a vedere le cose brutte, però, ecco, questa lo è”.

La cosa più bella?
“I bambini in cui riesci a specchiarti e a diventare ancora tu bambino”.

Allora, con l’istinto del bambino, ci dice un colore un odore e un sapore di Milano?
“Colore, vedo un rosso. Profumo… a volte mi piace l’aria di Milano, quella pulita dalle piante che trovo quando vado al Forlanini a correre. E un sapore… quello del risotto allo zafferano”.

Citava le piante del Forlanini, Milano è anche natura?
“A me piace l’autunno e il colore delle foglie  che mi da la spinta. Anche per correre l’ambiente conta e, infatti, non corro mai sull’asfalto”.

Cosa vede dalla sua finestra?
“Sono fortunato vedo un bel campo da tennis e poi spaziando tante piante e, in fondo, qualche aereo che si alza da Linate”.

E tra 100 anni cosa crede si vedrà?
“Credo tanta vegetazione, perché i giovani hanno già idee molto migliori delle nostre, sono convinto che si fermerà tutto questo cemento”.

Sta per finire il nostro tempo insieme, ho un’ultima domanda per Pino, che in questo incontro mi ha​ mostrato tutta la sua delicatezza. 

Lei cosa chiederebbe oggi a Milano?
“Di andare avanti sempre così… con il coeur in man”.

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