UNA VITA COSI’

Domenico, detto Mimmo, Nicuzzo per il padre che in tempo di guerra lo lasciava, alle quattro del mattino, in fila davanti alla bottega del fornaio, poi all’apertura del negozio lo andava ad aiutare e insieme portavano il pane a casa.

 

Quanti anni aveva Nicuzzo sette, otto? Aveva paura del buio? E gli altri, i grandi, gli adulti cercavano di rubargli il posto?

“ No, non avevo paura e nessuno cercava di approfittarsi della mia età per passarmi avanti”

In quegli anni di guerra Mimmo non era mai andato a scuola, la guerra, le bombe, lui aveva paura delle bombe che a Palermo avevano continuato a cadere anche dopo l’arrivo degli americani, e quando suonava la sirena dell’allarme correva a nascondersi nel rifugio antiaereo e aspettava che tutto passasse.

In famiglia erano in otto figli, sei maschi e due femmine, lui era il quarto e aveva un legame particolare con Salvatore il più piccolo, ogni tanto giocavano insieme, ma in genere avevano compagnie diverse.

Mimmo insieme agli amici si acquattava ai margini del campo da tennis in attesa che qualche pallina perdesse la strada e atterrasse fuori dal recinto, allora l’afferravano, scappavano via e arrivati fuori tiro la spelavano: da bianca diventava nera trasformandosi in palla con cui giocare interminabili partite di calcio.

E la domenica andavano a Mondello, località balneare vicino a Palermo, durante la settimana invece, sempre insieme agli amici, raggiungeva a piedi le spiagge più vicine, a volte percorrevano anche qualche chilometro, ma poi il mare era lì davanti a loro. Il mare, una presenza continua anche in inverno quando, indifferenti agli spruzzi, si recavano sul molo ad osservare la furia delle onde incuranti dell’acqua che bagnava i loro abiti.

Poi la guerra finisce, Nicuzzo deve andare a scuola, non sa leggere e scrivere, ha 11anni e nella classe è il più grande. Gli altri sono bambini mentre lui è quasi un adolescente, quasi un adulto, in quegli anni si diventava grandi alla svelta: “ Ero in ritardo, la guerra aveva scombinato tutto, mio padre voleva che imparassi anche un mestiere”. Così al mattino andava a scuola e  il pomeriggio a bottega da un maestro falegname. All’inizio raddrizza i chiodi poi piano piano impara a sbrigare altre piccole incombenze, ma deve aspettare qualche anno prima di potere iniziare a fare gli intarsi per i mobili che vengono commissionati al suo principale.

Cosi il tempo passa: Nicuzzo diventa Mimmo e parte militare con due anni di ritardo.  “Sempre in ritardo “, Domenico ride quanto sottolinea questo suo cattivo rapporto con il tempo, forse ha a che fare con il suo essere siciliano suggerisco io, ma lui non sembra sentirmi, ormai è lanciato nel ricordo.

“Sono andato a Legnago, vicino a Verona” continua “ mi sono trovato bene, quando si è giovani va bene tutto. Sono partito il 5 novembre del 1959, ho fatto il car a Pesaro e poi anche un mese a Falconara, poi mi hanno dato la destinazione fissa: Legnago.”

“E come si è trovato?”

“Quando si è giovani tutto va bene. Qualsiasi cosa mi andava sempre bene Andavo d’accordo con tutti, così come è sempre stato nella mia vita. Mi occupavo della manutenzione, facevo il falegname di caserma: aggiustavo qualche finestra, cambiavo qualche vetro. Poi dopo qualche mese mi hanno trasferito a Ravenna, alla foce del Reno, a Campo Poligono, vicino al mare, sempre il mare nella mia vita. Dopo sette  mesi sono rientrato al mio reggimento. Mi hanno mandato in officina, ma  ho litigato con il maresciallo perché non mi piaceva il lavoro. Avrei voluto imparare un lavoro diverso da quello di falegname, non ero andato così lontano da casa per fare quello che già sapevo, ma ero andato militare per imparare qualcosa. Comunque mi hanno trasferito in fureria”.

Dopo diciasette mesi il servizio militare termina e Domenico è di nuovo a Palermo nella grande casa dei genitori dove, dopo alcuni anni di matrimonio, è ritornata ad abitare la sorella insieme al marito e i figli. Gli altri fratelli via via si erano sistemati per conto loro. Sono sempre tanti a tavola, la mamma di Mimmo è una sorridente e ospitale bionda siciliana e tutte le feste vengono vissute in famiglia. Pasta con le sarde e anelli al forno sono piatti sempre presenti nei menù di queste occasioni.

La notte di Natale la famiglia intera ha l’abitudine di attendere la nascita di Gesù nella Basilica di San Francesco e dopo la messa si recano a mangiare il pane con la meusa, milza, alla focacceria che si affaccia sulla piazza antistante la chiesa. E’ una piccola piazza circondata di case in mattoni, al centro del quartiere Kalsa, situato a ridosso del porto dove lavora come scaricatore il padre di Mimmo.

La mamma deve badare a quella grande famiglia ed ha a stento il tempo per dormire.

La vita scorre tutti i giorni uguale, qualche fidanzata, ma niente di importante. Un giorno, era il 1974, un amico, con il quale era cresciuto, che viveva in settentrione da quasi vent’anni e che ripetutamente aveva cercato di convincere Domenico a raggiungerlo a Milano, torna in vacanza a Palermo e insiste: “Domenico vieni con me al nord, puoi lavorare nella mia falegnameria, guadagnerai di più; qui prendi 5000 lire al giorno, a Milano puoi guadagnare il doppio”.

“Perché no?” pensa Mimmo, ha 38 anni, adesso o mai più, Domenico parte: è il 1974. Non ricorda nulla del viaggio, lui così preciso su alcune date…

Va ad abitare sul Naviglio Grande, vicino alla Canottieri Olona, nella stessa cascina dove il suo amico ha la falegnameria

Presto comprende che quelle dell’amico erano solo promesse: si, il lavoro c’era, ma i soldi non arrivavano con regolarità e a volte bisognava aspettare anche quindici giorni prima di vedere una lira, ma  guadagnava abbastanza per andare tutti i giorni a trattoria. Lì faceva amicizia con gli altri avventori, con i quali usciva dopo il lavoro: andavano a giocare a biliardo, al cinema a vedere i film di guerra e i western, a ballare alla discoteca le Antille in piazza 24 Maggio. Solo una volta ha provato a farsi da mangiare, ma appoggiando sul ripiano della cucina il coperchio della pentola dove bolliva la pasta, una scatola di fiammiferi rimane attaccata al coperchio e cade dentro la pentola quando questo vi viene riappoggiato. Domenico non ripeterà mai più l’esperienza.

E la domenica? Mimmo crede in Dio, ma non in tutto il resto, quindi non va alla messa, si alza un po’ più tardi del solito e poi fa una lunga passeggiata che lo porta fino a piazza Duomo dove a volte incrocia gli amici con i quali va a mangiare in qualche locale nei dintorni.

Tutte le feste le passa da solo: sono dei giorni come gli altri.

Per fortuna dove abita c’è il portinaio, un uomo gentile che, quando Domenico si ammala e ha la febbre alta gli impedisce di uscire, si occupa di lui.  Per campare deve fare doppio lavoro: falegname e scaricatore presso una cooperativa di trasporti; ha buoni rapporti con i colleghi che sono le uniche persone che frequenta, ma con cui non trascorre nessuna festività particolare: compleanni, Natale, Pasqua per lui sono giorni come tutti gli altri. Per il suo compleanno non cambia neanche trattoria, va in quella di tutti giorni siede allo stesso tavolo di sempre.

I soldi sono pochi, così pochi che riesce a tornare a Palermo una sola volta: l’anno successivo alla sua partenza in occasione della morte del padre. Anche i rapporti con i familiari, inizialmente tenuti vivi attraverso il telefono, si sfilacciano fino a diventare un melanconico ricordo. Si, quando è morto suo fratello ha sentito qualcosa dentro ma la crudeltà della  lontananza ha preso il sopravvento.

Mimmo lavora  spesso in nero, in pochi gli versano i contributi, l’età della pensione è prossima, le forze per lavorare incominciano a mancare. I Navigli stanno diventando un luogo alla moda, non c’è più posto per i poveri: il padrone di casa gli aumenta l’affitto, lui resiste fino a quando può… poi la procedura di sfratto lo butta fuori. Gli amici lo ospitano, un  po’ da uno e un po’ dall’altro, passano due anni. Domenico non può continuare così: è un uomo alla deriva, documenti scaduti, senza casa, senza soldi,

Qualcuno gli suggerisce di rivolgersi alla casa di Viale Ortles dove arriva il 2 novembre 1999, il cielo è grigio quel giorno, e qui, come dice lui, lo mettono a posto, gli restituiscono la dignità.

Del suo passato non rimane traccia, in quei due anni di vagabondaggio, da una casa a un’altra, ha perso tutto, non ha più neanche una foto.

I primi tempi, durante il giorno, andava al centro diurno della Cardinale Ferrari, vicino alla Centrale del Latte: qui mangiava, passava il tempo e a volte gli trovavano qualche lavoretto. Con quello che guadagnava si permetteva qualche pranzo in trattoria. I suoi piatti preferiti erano gli spaghetti al pomodoro e i bucatini all’amatriciana.

Faceva anche brevi passeggiate: piazza Bonomelli, Corvetto, corso Lodi, andava a prendere un caffè e poi si sedeva su una panchina e attaccava discorso con chi stava li.

Adesso, non sta più molto bene e la vista è calata così tanto che non riesce più a leggere. A giorni  ha l’appuntamento con l’oculista per fissare l’operazione che risolverà il suo problema. Per il momento, però, non può allontanarsi dalla casa che lo ospita. Esce ma va fino alla fermata dell’autobus e poi torna indietro. All’interno della residenza non ha stretto amicizia con nessuno, saluta tutti, è educato con tutti, ma preferisce stare da solo.

“Mimmo cosa pensa tutto il giorno?”

“A niente, alla sigaretta che fumerò tra poco e alla visita dall’oculista. Non rimpiango nulla: sì, forse la gioventù, ma per il resto non mi manca niente, sto bene: è andata così e me la tengo così, non cambierei nulla”.