Un nonno da favola – 
La storia di Guerino

Tripoli, un altro mondo

“Laggiù a Tripoli di un deserto avevamo fatto un giardino. La Tripolitania era una fascia costiera di 15 – 20 km. Erano tutti poderi e fattorie. C’erano palme, piantagioni di arachidi, di mandarini, di arance, di mandorle, un colore bellissimo. Il racconto non riesce a dare idea della vivacità delle tinte”. Il vigore della natura, manifesto nei toni del verde del rosso del giallo dell’azzurro del blu e di tutte quelle gradazioni che si possono solo immaginare se non sei stato là, in Africa, tracciano la storia di Guerino, nato in Libia il 6 febbraio 1941. “Qui a Milano abbiamo colori più tenui, sul grigio – dice il nostro protagonista -, gli avvenimenti storici portano un po’ più sul grigio. Tu vai alle fermate del tram, nei mercati, fuori dai bar, la gente parla, ma se ti fermi a sentire sai di cosa parla? Mai una cosa positiva, sempre in negativo, sempre contro i governi i municipi i consiglieri dei condomini. Anziché dire ‘tò ti ho fatto un pezzettino di strada’. No, tutto quello che si fa non va mai bene. Tutto grigio. La vita invece è anche questo, un colore un po’ più solare. Non è detto che affinché tutto vada bene, devi avere tutto quello che vuoi tu. Non assapori di stare bene finché non stai male. E dopo che sei stato ammalato, capperi se stai bene! Vero o no? Tu stai bene, ma non te ne accorgi, è naturale. Lo vediamo anche noi alla nostra età che finché possiamo fare determinate cose… anzi menomale che le facciamo! La gente – penso a Milano – è abituata a stare sempre bene. Vuole sempre avere qualcosina in più”.

Si erano mossi dal Veneto nel 1935 insieme ai 20.000 dell’Italia di Mussolini. Erano tutti contadini in famiglia, divenuti coloni avevano ricevuto un podere e i mezzi, trattori, aratri e animali per coltivare la terra. “Mia mamma stava lavorando alla semina quando le si sono rotte le acque – ricorda Guerino -, sono stato partorito in mezzo ai campi: non mi hanno saputo dire se fossero di cavoli o di broccoli. Era una situazione delicata, tra le piantagioni si aggiravano ‘i cani selvaggi’ che quando sentivano l’odore del sangue intervenivano e non c’era da dialogare con loro”.

Per fortuna che passavo io in mezzo ai campi!

La voce di nonno Ambrogio, uomo straordinario e puro ingegno in terra africana, traccia la traiettoria della vita di Guerino e segna la linea di questa storia, unica e favolosa. Ambrogio, veneto dai capelli lunghi sapeva fare un mucchio di cose, tra cui costruire aquiloni, alcuni grandi come appartamenti. Proprio mentre ne faceva volare uno, vedendo la nuora china in un campo di broccoli, o di cavoli, scopriva di essere diventato nonno e riportava verso l’abitazione a bordo di un carretto trainato da un asinello la donna e il suo neonato.

“Ah nonno! Tu eri un favola – ricorda Guerino, quasi come se lo avesse davanti in carne e ossa-. Ti ricordi l’orto che avevi fatto? Era quasi circolare, girava intorno alla casa. L’avevi fatto alfabetico: il cavolo era sotto la C, le carote sotto la C, il raggio era in base alla qualità dei prodotti, la P era un po’ più grande perché di pomodori ce ne erano di più. E ti ricordi che una volta ci siamo caduti dentro con l’aquilone? Ogni tanto facevi dei voli con gli aquiloni, ti aggrappavi e giravi. Quella volta mi dicesti: ‘andiamo a fare un giro!’. Il vento, lo scirocco, è cessato e siamo caduti nella F dove c’erano i fichi d’india. E nonna Albina piano piano con la pinzetta e con l’alcol ci ha tirato fuori le puntine. Che dolore! Io ho ancora dietro tutte le cicatrici dei fichi d’india”. “In Libia – continua il racconto di Guerino – c’erano dei pozzi artesiani, larghi circa un paio di metri. Di solito l’acqua sgorgava naturalmente fuori. Certe volte però la falda diminuiva e allora bisognava mettere un motore per aspirarla. L’acqua è vitale, allora tu nonno mettevi giù il motore e questa pompava. Ogni tanto però non funzionava. Nel filtro di aspirazione c’erano dei bei rospi. Allora andavi giù e li tiravi via tutti questi rospi. E l’aereo che si era rotto? Rammenti nonno? Lo avevi costruito per noi e a furia di trascinarlo si erano consumate le ali, allora tu ci hai messo le 4 ruote e da un aereo con le ali mozze ci hai fatto una macchinina. Noi nipoti eravamo in 4, 4 fratelli tutti maschi, figli di Brigida e Domenico. C’era Piermario, Guido, io e Florio. Andavamo tutti d’accordo. Non avevamo da litigare come ora “questo è mio, questo è tuo”, il mio era il nostro. Quando uno non ha niente, ha tutto. Non c’era il possesso. Non avevamo niente e quello che si trovava era nostro. Era una vita diversa, una vita agreste. Èdifficile concepire la non competizione. Era un altro tempo. Ripeto: quando uno non ha niente, non ha nemmeno l’invidia”.

Eravate dei bambini fantastici. E quanto ti divertivi anche con Daud!

Ah Daud! Io avrò avuto grosso modo 12-13 anni.

Là era come in un grosso condominio dove si giocava tutti  insieme. Non si sapeva mai cosa fare. Il gioco si inventava al momento in base a qualsiasi cosa si avesse a disposizione. Tutti i giochini ce li facevamo noi o ce li costruivi tu, nonno. Allora ecco i carrettini, i cuscinetti messi dietro e avanti a una tavola, scivolavamo a pancia in giù, o il cerchio della bicicletta, facevamo una specie di forcella e lo spingevamo.

Con Daud andavamo d’amore e d’accordo. Un giorno eravamo a caccia di scorpioni: ne vediamo uno bello grande che entra in un buco. Volevamo prenderlo. Toccava a me. Guarda caso lo becco nella parte giusta: dalla coda! Appena lo tiro fuori, Daud mi dice ‘buttalo via, subito’! E diciamo non che mi ha salvato la vita solo perché i nostri genitori sapevano che c’erano gli scorpioni e i serpenti e avevano l’antidoto in casa realizzato con le code, il veleno, e l’alcool. Quando ci morsicava una vipera o ci pungeva uno scorpione eravamo già allertati: tornavamo a casa, ci tagliavano un po’ e ci stringevano… usciva un bel po’ di sangue e ci mettevano su l’antidoto. Si usavano le foglie di cipolla allora. Le cipolle hanno quella patina fuori tipo carta velina, la adoperavano come strato divisorio tra la ferita e la garza.

Andavamo sempre in giro assieme io e Daud. Passavamo le giornate. Quando avevamo entrambi circa 15 anni, suo papà disse: ‘lui è bravo, però non sa che cosa fare’. E anche quella volta c’eri tu, nonno Ambrogio, pronto a venire in aiuto. Là avevamo il problema delle carogne, un cane o un animale morivano e c’erano le carcasse al sole, spesso questi resti causavano pure malattie. Allora hai costruito un triciclo, e con questo Daud andava in giro con un contenitore a raccogliere le carogne. Sai nonno, Daud negli anni di Gheddafi è diventato collaboratore del ministro dell’Agricoltura. Daud, piano piano, si era fatto una cultura dei terreni, di come dovevano andare certe cose. Aveva imparato l’alternarsi delle correnti, mettendo delle palizzate con delle canne di bambù legate insieme si costruivano stuoie robuste che si legavano in modo tale che la sabbia non andava a inficiare il terreno fertile. Da una piccola cosa è diventato un pezzo importante.

Sono felice di quello che mi racconti. La nostra quotidianità era così semplice…

 Si incominciava con la colazione. Nel cortile avevamo pecore, capretti, cani e oche. Ci svegliavamo presto, anche perché andavamo a letto anche presto. Se non volevi mangiare non era un problema. Si chiudeva tutto e via. Il frigo non c’era e bisognava conservare bene tutto. C’erano delle formiche lunghe un centimetro, un centimetro e mezzo che davano certe beccate! Le formiche hanno un olfatto da paura! Al mattino colazione a base di frutta fresca. Ci alzavamo e andavamo a prendere le arance. Le arance c’erano da settembre/ottobre fino a febbraio/marzo, il pane lo faceva mamma… delle belle pagnotte che duravano circa una settimana! Bevevamo il latte di capretto o delle mucche. Ogni tanto mettevamo il cucchiaio nella tazza e rimaneva in piedi, si formavano quasi due dita di panna.

Durante il giorno facevamo attività, si andava in giro. Eravamo in un villaggio interno che si chiamava Bianchi, a circa 6 km dal mare. Dopo di noi c’erano solo radure e deserto. Per andare al mare ci impiegavamo circa un’oretta. Il mare per me significa libertà, c’era un’atmosfera che meglio di così non era possibile.

A scuola abbiamo fatto solo l’avviamento, fino a 8 anni. Poi ho lavorato come ciabattino e sarto in piccole botteghe. Non abbiamo mai avuto i compiti a casa quando frequentavamo la scuola, perché eravamo attenti durante le lezioni. A scuola eravamo mescolati noi e gli arabetti, loro parlavano perfettamente italiano e noi conoscevamo qualcosa di arabo. Convivevamo naturalmente, non c’era competizione: ‘niente ho io e niente hai tu’. Ogni tanto mia mamma faceva da mangiare per noi e i vicini e preparava il cous cous. Non ricordo di quanti ettari fosse il podere. Noi avevamo un orto e la piantagione. L’orto era quello che ci serviva per il fabbisogno giornaliero, mentre la piantagione era la parte commerciale della fattoria. Mussolini ci aveva dato tutti i macchinari, le sementi, le attrezzature e le varie guarnizioni per gli animali a un prezzo stracciato. Noi dovevamo coltivare la terra e dal guadagno dei frutti venduti si pagavano gli strumenti in dotazione (per esempio se il trattore valeva 10.000 lire te lo davano a 5.000 lire e tu in 10 anni li dovevi restituire in arance arachidi e mandorle). Ti ricordi nonno di padre Giovita? Con lui facevamo delle gite, si andava in giro per raccogliere donazioni dai negozianti per le varie pesche di beneficenza. Ci dava consigli, perché allora c’erano pratiche da sbrigare e i sacerdoti, che avevano studiato, sapevano di più e ci aiutavano. Lui non voleva niente in cambio, veniva solo a pranzo come ospite.

L’Italia e l’amore

Quando è venuto in Italia nonno Ambrogio era già venuto a mancare. “In Libia abbiamo lasciato la casa a una famiglia di arabi. Noi siamo partiti verso le 12 del 28 marzo 1958 e alle 8 del mattino erano già là: hanno piantato la tenda e hanno fatto entrare in casa tutte le bestie. La loro libertà era la tenda. Non avevano più di tanto, una teiera due bicchierini del tè, in 5 minuti potevano cambiare tutto”.

Mentre a Tripoli cambiamenti epocali tracciavano i nuovi contorni della società, Guerino insieme alla sua famiglia faceva la traversata a bordo della nave ‘Argentina’.

“Sai, eravamo tra i pochi ad aver pagato il biglietto”, confida Guerino. Sbarcato a Siracusa a quell’adolescente che aveva surfato il mare grosso a bordo di una ‘carretta’ dal nome di un paese sudamericano, sembrava che il molo quasi dondolasse, tanto era il mal di terra dopo la traversata. Altre 24 – 28 ore di viaggio e si era ritrovato a Rho, più precisamente a Lucernate. “Nonno, pensa che dopo qualche settimana è esondato l’Olona. Mi sono svegliato una mattina e ho visto un unico colore grigio, di fango e nebbia”. Nel ’58 anche l’Italia stava vivendo un grande fermento: “Non c’era porta dove bussavi per lavorare che non ti aprissero – racconta Guerino -: Solo per i ‘terroni’ c’erano delle difficoltà, su alcune case del nord c’era scritto ‘Non si affitta ai meridionali’, e non c’era un terrone più terrone di me che venivo dall’Africa”.

Proprio in quegli anni ci fu l’incontro con la donna che poi sarebbe diventata sua moglie: Tina.

Sono contento di sapere che ti sei sposato. Raccontami come è andata…

A dire il vero nonno, l’inizio del mio amore è stato un po’ particolare. Era il ’64. Andavo in giro con una vespa verso Varese e chissà come mai sono capitato a Castronno. Ho incontrato una serie di persone, tra le quali una ragazza che era piuttosto chiusa, ma sono quelle cose strane di quando una persona non si vuole mettere in mostra e proprio per questo la si nota. E lei era una che non si metteva in mostra. Ho saputo che era una lontana parente, parente di parenti. Sono passati alcuni anni da quella volta e io e Tina ci siamo incontrati ancora. Io a quei tempi lavoravo alla Montecatini di Rho. Lei era una cittadina: abitava in Porta Venezia in via Melzo. Per far colpo l’ho invitata al Teatro alla Scala, perché le piaceva la musica lirica. Una mattina mi presento al teatro per acquistare i biglietti per La bohème. Li volevo per lo spettacolo del pomeriggio, perché facevo i turni e io al mattino lavoravo (i turni erano dalle 6 del mattino alle 2 del pomeriggio, dalle 2 alle 10 di sera, dalle 10 di sera alle 6 del mattino). ‘Ok – mi dicono – 2 ingressi matinée’. ‘Ma scusi – rispondo -, io lavoro’. Così ho scoperto che per ‘matinée’ si intende il pomeriggio! Arriva il giorno dello spettacolo e io entro col mio bel vestito. Sai nonno ce l’ho ancora quel vestito, ha quasi 60 anni, però ancora mi sta da Dio! Quando entro, mi tolgo la giacca e arriva subito la maschera: ‘si rimetta la giacca!… adesso vanno anche in jeans, ma allora… Èstata una bella serata. Era una cosa quasi platonica, uscivamo, andavamo al Biffi a prendere il caffè. Per me che ero ragazzo di campagna si trattava di un gran salto di qualità, quei bar erano bellissimi!

Ci siamo sposati il 4 novembre del 1968 nella chiesa di Santa Francesca Romana, in Porta Venezia, era il giorno della Vittoria. Quest’anno sarà il nostro cinquantesimo anniversario.

Sembra normale passare 50 anni insieme con una donna. Non avendo altri termini di paragone, non mi immagino altre vite se non questa.

Non abbiamo mai litigato se non per delle stupidaggini, anche perché litigare per quale motivo?Lei è apprensiva, io sono un po più leggerino, ma è proprio questa differenza che ci fa stare bene. Se fossimo tutti e due uguali non ci sarebbe gusto, se due sono omogenei è una cosa piatta. L’unica cosa che mi spiace è che lei ha paura di andare in aereo, in nave, in barca e personalmente mi farebbe piacere fare un giretto. Quando c’è stato di ritornare a Tripoli ho mandato il fratello, perché andare da solo non volevo andare, avrei voluto farle vedere che l’Africa non è come Milano, ma niente… ha paura, per cui va bene così.

Mi sono innamorato di un insieme di cose. Non cercavo solo la bellezza, la bellezza va e viene. Lei poi non si trucca, per cui come l’ho conosciuta di giorno, l’ho vista anche di sera, invece certe  sono ragazze si mettono il trucco, ma poi quando se lo tolgono…

Quando i figli ormai grandi sono andati via da casa, ho trovato il volontariato, una valvola che ci ha fatto livellare. Le cose si possono fare benissimo anche se ci si vede un po’ meno al giorno.

Il nostro equilibrio è proprio questa non vicinanza totale, lei lavora all’uncinetto, io ho una manualità spiccata, ma i nostri lavori non sono comunicabili, facciamo ogni tanto delle partite a carte ma sono cose sedentarie che a me a lungo andare annoiano.

Sai nonno, per me la cosa più importante è stare bene, anche in famiglia.

Se dipendesse da me farei stare meglio Tina, le donne sono sempre state trainanti e determinanti. Quest’estate stiamo con i nipoti in una casa vicino Sanremo, ci andiamo in vacanza dal ’78. Adesso ci portiamo i bambini e stiamo benissimo.

Come nonno Ambrogio

Sono dunque trisnonno…

Sì, di Carolina, 13 anni, Edoardo, 10 e Francesco, 5 anni. I primi due sono figli di Arabella, la mia primogenita (l’ho chiamata così in onore agli arabi… e poi era bella!), il più piccolo è figlio di Amos, il cui nome è un omaggio a un mio grande amico, educato gentile e talentuoso. Arabella è nata nel ’70, Amos è del 74.

Quando erano piccoli, tornavo da lavoro e passavo quel tempo o a studiare con loro o a registrarli mentre gli raccontavo le storie, loro intervenivano e così stavamo insieme. Ho ancora i nastri. Ho voluto insegnare ai miei figli le buone maniere, il rispetto, gli ho sempre detto: “siete uguali, precisi identici”.

Sono stato fortunato anche perché ho avuto la moglie che si interessava molto a loro e anche adesso lo fa.

Quando arrivano i nipoti poi, è una rinascita. Con i miei nipoti sono un nonno super!

Mi butto giù per terra, perché se vuoi giocare ti devi mettere alla loro altezza. Con mia moglie ci dividiamo i compiti: la parte ludica al nonno, la parte medica e culinaria alla nonna.

Quasi ci divertiamo più noi, solo che non abbiamo il fisico… Giochiamo con i lego, ho fatto costruire loro un cagnolino con i mattoncini. Gli insegno che certe cose che sembrano difficili o impossibili, con la pazienza si fanno. Io sono un creativo, molte cose mi vengono spontanee senza tanta fatica. Però sai, una volta i nonni erano delle fonti di ispirazione, quasi dei monarchi… Tu adesso hai l’avvocato, il dottore, l’imbianchino, il meccanico, il sarto, là c’eri tu, nonno Ambrogio. Eri un genietto. Io ti seguivo in tutte le cose che realizzavi con i pochi arnesi che avevi a disposizione, perché mi interessava, anche adesso in casa riparo un mucchio di cose. Sai nonno ogni tanto li porto nel mio laboratorio e faccio fare loro dei lavori manuali, come verniciare delle scocche delle automobiline, tagliare dei legnetti per fare delle cornici. Quanto è bello passare il tempo costruendo qualcosa! Facciamo le casette in legno pressato, io disegno lo schema, insieme tagliamo il cartoncino, loro dipingono. Sono bravissimi, fanno un mucchio di cose: vanno a piscina, studiano pianoforte, fanno basket, ma mi piacerebbe che se la sbrigassero da soli con certe piccole cose quotidiane, tipo incollare una scarpa, il quaderno con la copertina allargata, cucire un bottone. I bambini sono una favola, se gli fai vedere come attaccare il bottone, imparano subito. Èuna fortuna essere nonni perché hai più tempo libero. Adesso capisci di più, prima come papà eri dentro e cercavi di trovare il tuo ruolo. Ti ricordi nonno quando andavamo con le Jeep nel deserto a caccia di varani? Ci portava papà. Ora con Edoardo abbiamo una tecnica per prendere le lucertole, uno va da una parte e uno dall’altra. Gli faccio vedere le zampette, la bocca. Quando siamo al mare con Edoardo andiamo sugli scogli, prendiamo la canna di bambù, peschiamo i granchi, i polpi, i paguri. Con lui c’è stata un’affinità immediata, se tu lo vedessi nonno penseresti che sono io da piccolo! Con il progetto ‘Nonni Amici’ Guerino e la schiera di volontari di Anteas sono impegnati con i bambini. “Come nonni andiamo a portare racconti di vita vissuta agli alunni delle scuole primarie e dell’infanzia. Tutte le storie hanno una morale, preferiamo dare qualche consiglio tramite le nostre esperienze. La figura del nonno è preziosa. Il mondo dei bimbi è favoloso – dice -. È facile stare con loro, non bisogna essere preparati, tanto se vogliono ti mettono in imbarazzo comunque… fanno delle domande! Certe volte ci commuoviamo veramente. Una volta eravamo in una classe e raccontavamo che tutto nasce da un seme: la vita dei fiori, degli uomini, delle piante, degli animali. Un bambino allora si alza e chiede: ‘Scusi nonno, anche Dio nasce da un seme?’ E noi gli abbiamo solo potuto rispondere ‘non lo sappiamo’, perché non bisogna ingannare i bambini. Poi sai nonno come è il mio rapporto con la religione. Chissà dove starai galoppando tu adesso, tu che sei sempre stato in movimento. La mia forza nella vita è stata quella di pensare a mia moglie e ai miei figli. Siamo stati abituati a sbrigarcela da soli. A Tripoli se non te la cavavi da solo o grazie al nonno col cavolo che qualcun altro ti aiutava! Avevamo una direttiva dall’alto, ed eri tu, nonno Ambrogio. Sai nonno, io mi immedesimo molto in te. Sembra che il tempo non sia passato proprio. La voglia che ho io di insegnare ai miei nipoti è uguale a quella che avevi tu. Certo, ora i tempi sono cambiati.Ci sono tanti giochi e distrazioni, ed è più difficile inserirsi. Prima davvero non si aveva niente, non sapevamo nemmeno che esistessero altre cose, ma forse è ancora questo il segreto: vivere con quello che hai. Per me sei stato un maestro, una vera favola. Adesso abbiamo gli attrezzi, ma una volta andavamo a cercare le canne di bambù per fare gli aquiloni, lavoravamo con l’incudine il martello. Nonno, per quello che avevi, hai fatto tantissimo, anzi di più… Sei stato un sogno.

La biografa di Guerino è Serena Adriana Poerio