Nulla è più bello, più vero della vita.

Prendila sul serio

ma sul serio a tal punto

che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi

non perché restino ai tuoi figli

ma perché non crederai alla morte pur temendola,

e la vita peserà di più sulla bilancia.

Nazim Hikmet

 

Fino ai 10 anni: bambino scavezzacollo e impertinente.

Mi chiamo Giovanni e sono nato a in un paesino della bassa milanese in un giorno di primavera del 1941. Era il 23 marzo. Ho vissuto un’infanzia stupenda, attorniato dalla mia grande famiglia. Una grande fattoria dove potevo giocare, correre, scorrazzare ovunque liberamente e li ho vissuto grandi emozioni e ho assorbito quei principi, che sono diventati poi parte integrante della mia vita. Ho assaporato la libertà e sono stato circondato da tanto affetto e protezione non solo dai miei genitori, ma dai nonni e dagli zii. Ero il primo nipote e tutti erano lì per me. Mi ricordo un episodio che mi colpi nel profondo. Mio nonno, che era un contadino, aveva un vigneto. Le vigne erano sostenute da diverse piante di ciliegio. Un anno, era appena finita la guerra e c’era molta fame, mio nonno si è trovato con le piante di ciliegio tutte rovinate, i rami strappati per rubare più facilmente le ciliegie. Lui ci rimase malissimo. L’anno dopo stranamente le piante rimasero intatte. Io lo seguivo sempre e quell’anno, dopo aver fatto la raccolta delle ciliegie, vidi che lui aveva preparato un grosso cestone pieno di ciliegie e, seduto sul tronco di un albero, si mise a distribuire una razione di ciliegie ai numerosi braccianti agricoli che si erano messi lì tutti in fila davanti a lui. Mio nonno era riuscito a trovare una sola soluzione a due problemi diversi: non trovarsi le piante rovinate e sfamare tutte quelle persone. Sento ancora un profumo di rose.

A gennaio c’era una grande festa, che aveva però un qualcosa di macabro. Mio nonno si alzava prestissimo alle 5 del mattino e accendeva il fuoco sotto un pentolone enorme. Io ero sempre lì e riuscivo a vivere le cose così come erano nella realtà. Per me era una festa, perché mi piaceva questo trambusto e poi si rincorreva il maiale che non si voleva far prendere. La vendemmia era per me un’altra bella festa con i miei zii che entravano in questa cesta grandissima a schiacciare gli acini dell’uva. Il profumo del vino permeava tutto l’ambiente.

Ero un bambino viziato, un po’ impertinente. Ero il primo nipote e tutti quanti erano lì per me e io ne approfittavo. Ero anche un po’ indisciplinato e questo mi ha creato qualche difficoltà, quando sono andato alle scuole elementari. Il mio primo amico di infanzia si chiamava Eustachio e sua mamma era meridionale. Una donna tremenda, anche solo a vederla e faceva anche da balia a molte mamme che non avevano il latte. Lui era juventino e io ero interista, lui tifava Coppi e io Bartali, ma era un conflitto amichevole, che poi finiva sempre con il desiderio di stare insieme. Facevamo i circuiti con la sabbia, giocavamo con le biglie. Si era più appassionati di ciclismo che di calcio. Poi l’ho perso di vista Eustachio. Io sono venuto a Milano, ma lui ancora prima era andato a Corsico. I ricordi di quei giochi sono ancora impressi nella mia memoria. Mi ricordo di un ragazzo timido e piccolino, che un po’ tartassavo. Una volta eravamo sulle due sponde di un canale che attraversava il mio paese. Abbiamo cominciato a tirarci i sassi a vicenda, finché io l’ho colpito in fronte. Quella volta sua mamma è venuta da mia mamma e questo incontro è stato per me un momento crescita. Ho capito di essermi comportato male, ma è stato anche un momento educativo perché le due mamme non hanno litigato ma si sono parlate e capite. Dal quel momento in poi ho sempre trattato bene quel ragazzino.

Ne combinavo di ogni, a volte facevo qualcosa che meritava una punizione o mi metteva in pericolo. Mi piaceva tanto arrampicarmi sulle piante, prima sul fico che era basso e poi sui pioppi. Una volta mi sono arrampicato su una pianta di fico, si è spezzato un ramo e sono caduto su una gabbia di polli, piena di pulci. È arrivata mia mamma e mi ha buttato in quei secchioni dove si teneva l’acqua d’estate a scaldare. Ero nei pericoli fino a un certo punto, perché c’era sempre qualcuno pronto a soccorrermi.

L’affetto che mi ha sempre circondato, quantunque io fossi un bambino che diceva sempre di no, mi ha reso forte e positivo. Ho subito poche imposizioni e non ho mai preso botte.

Durante la guerra a Milano c’erano gli sfollati e venivano nel mio paese. Io avevo tre o quattro anni e ho stretto amicizia con un bambino della mia età. Per contrasto, io che abitavo in campagna amavo i motori, mentre lui cittadino amava i cavalli. A lui piaceva fare il cavaliere e io dovevo fare il cavallo, mi metteva la corda sulle spalle e io dovevo correre. Non ho mai digerito molto quella situazione, ma la sopportavo perché credo che tra amici a volte succeda che uno prende il sopravvento sull’altro, però l’amicizia resta. Questo ragazzo l’ho rincontrato, dopo 60 anni, a Lourdes. L’ho riconosciuto subito, era uguale a sua mamma, ci siamo abbracciati.

Da piccolo, pur abitando in una fattoria in mezzo a cavalli e bestie, ero appassionato di motori. Quando sentivo il rumore di una macchina da lontano, nel mio paese ne passavano poche una ogni tre/quattro ore, mi bloccavo, tendevo l’orecchio e poi, quando il rumore diventava più forte, non riuscivo a restare nel cortile e scappavo fuori. La strada non era asfaltata, quando passava una macchina faceva un polverone e io gli correvo dietro. Una volta è successo che sono scappato fuori ed è uscita anche la mia sorellina di quattro anni, che è finita sotto la macchina. Gli uomini sono subito scesi, l’hanno presa e le hanno messo la testa dentro l’acqua. Io ero lì che non capivo più niente. Mia nonna mi voleva dare le botte. A un certo punto è arrivata mia mamma e mi ha stretto forte a sé, io la guardavo in faccia, mi sembrava una fata con la sua bella treccia nera avvolta intorno al capo. In quel momento mia mamma, senza parlare, mi ha regalato un’emozione fortissima.

I salesiani: tre anni difficili ma costruttivi

Al termine delle elementari, mio papà ha pensato di inviarmi a Torino dai Salesiani visto che il paesino era un po’ chiuso in sé stesso anche a livello culturale e io ero un bambino un po’ indisciplinato. Mio padre ha avuto buon occhio.

Ho fatto 3 anni di collegio alle medie. Il primo giorno da solo è stato sul treno, era un treno pieno zeppo, che andava ancora a vapore. Mia mamma mi ha spinto su un vagone pienissimo e ha detto a un signore che era lì di darmi un’occhiata. A quei tempi era così. Quello rimane il mio ricordo più forte, il distacco è stato molto doloroso. Non ero abituato alla solitudine e mi sarebbe mancato molto l’affetto della mia famiglia. A Torino mi aspettava mio zio, mi ha portato lui dai Salesiani.

All’inizio mi sono sentito perso e mi sono chiuso molto, facevo fatica anche ad esprimermi. Il mio vocabolario era povero e mi sono trovato con dei ragazzi di città che avevano un parlare più raffinato. Mi sono chiuso e la molla che ha dato una svolta è stata la scoperta del latino. Il latino mi piaceva tanto, questo modo di esprimersi, queste frasi che sono tanto scombinate rispetto all’italiano. Poi ho cominciato a fare amicizia, grazie anche alla squadra di calcio della classe, ero bravo a giocare. Ho un ricordo vivo del professore di italiano della seconda media, un insegnante fenomenale. Ci faceva leggere un pezzo di un libro e da lì spaziava su tutti gli argomenti. Era un affabulatore. Questo professore mi ha aiutato molto anche quando sono ritornato dai salesiani, su insistenza di mia mamma, dopo la morte di mio padre. Ero depresso, non studiavo, non riuscivo, avevo la mente via. Pensavo alla mia famiglia. Un giorno mi ha preso da parte, mi ha dato una sberla. Ho sentito che non era uno schiaffo per farmi male, era uno schiaffo affettuoso. È stato bravo a darmelo al momento giusto. È stata una bella svolta, da lì ho ricominciato a studiare.

Sono tornato qualche anno fa, ora è là abbandonato. Mi ricordo che c’era un grandissimo cortile con gli scaloni che portavano alle aule e uno studio grandissimo, dove studiavano tutti. Si mangiava in modo frugale, erano tutti mangiari molto semplici, quelli a cui ero già abituato. Naturalmente il mio piatto preferito era il minestrone.

Mio padre morì mentre frequentavo i salesiani. Mi ricordo che la sera che mio papà morì, io cominciai a piangere forte. A un certo punto sentii una mano sulla mia testa, un calore che mi ha rigenerato. Era il prete del mio paese, che poi mi aiutò occupando il mio tempo libero in paese facendomi fare l’operatore cinematografico, l’allenatore di calcio, svolgendo varie attività in quel punto di aggregazione che era la parrocchia. Questo mi ha distolto dal pensiero che mio papà non c’era più.

Una volta in paese c’era una vita comunitaria, ci si aiutava l’un l’altro e tutti avevano attenzione verso i figli degli altri. A me è mancato molto il mio papà, ma sono stato aiutato dall’intera comunità, oltre che dalla mia famiglia. Adesso è molto cambiato, io ci vado pochissimo, dei miei coetanei non c’è quasi più nessuno. Era un paese piccolissimo, adesso si è ingrandito, è rimasta mia zia che vado a trovare ogni tanto.

Mia mamma ha avuto una forza tremenda quando è mancato mio padre e ha insistito per farmi proseguire gli studi, sapeva che mio padre e mio nonno ci tenevano che avessi un’istruzione, perché contava nella vita. Io tenevo sempre a mente la frase che continuava a ripetere mio nonno “le radici sono amare, ma danno un frutto dolce”, un aforisma che ha accompagnato tutta la mia vita. Lui, il papà di mio papà, era un omettino che faceva il falegname e suonava l’organo, era il nonno saggio. L’altro nonno era un contadino, il “saggio delle mani”. Mi viene in mente ancora adesso come trattava le viti, aveva due mani grandissime, ma una delicatezza nel trattare le viti, quasi quasi gli dispiaceva potarle.

Io non dimentico le mie radici ed è grazie ai miei maestri che ho capito che ci sono tante dimensioni nel crescere, non si cresce solo fisicamente, socialmente, intellettualmente, si cresce in tutto.

 Dai campi di grano maturo al coeur in man de Milan

Finita la terza media, ho dovuto andare a lavorare, era una necessità della famiglia. Mio papà non c’era più. A 14 anni sono andato da solo a Milano e mi sono trovato subito bene, anche se dovevo spostarmi continuamente con l’autobus.

Mi sono inserito subito nel mondo del lavoro, a quei tempi c’erano molte possibilità. Sono stato assunto come apprendista in una fabbrica elettromeccanica in Piazzale Lodi. Mi sono trovato bene, perché non era un lavoro standard e io avevo già allora quello stimolo verso qualcosa di nuovo, tratto distintivo della mia vita. Non ho mai cambiato ditta, ma ho avuto diverse mansioni. Io non pensavo alla carriera, ho sempre avuto il concetto, derivato da mio nonno, che il lavoro è un servizio in sé.

Nel 68 ci siamo trasferiti a Milano con la mamma e i fratellini. Eravamo in sei, io ero il primo e tutti quanti abbiamo avuto la possibilità di lavorare.

A 28 anni c’è stata una svolta nella mia vita. Un amico mi invitò a trascorrere 15 giorni a Pian del Ciampedie sulle Dolomiti. Erano i primi anni che ero a Milano, era ancora un po’spaesato. All’epoca non ero una persona molto aperta, ma in quel rifugio ho trovato una compagnia stupenda, che mi è stata da stimolo ad aprirmi nei confronti degli altri, soprattutto verso persone diverse da quelle del mio ambiente. Ho camminato, guardato le stelle, trascorso cantando belle serate. Il profumo dei prati e il verde che mi circondava mi hanno dato serenità. Sono tornato a casa cambiato.

Sono andato in crisi verso i 38 anni, quando i fratelli e le sorelle sono andati via di casa e io non ero più il capofamiglia e ho pensato a cosa avrei fatto lì da solo con mia mamma. Mia mamma insisteva che dovevo farmi una vita mia. Ho incontrato mia moglie e sono contento di averla trovata e poi i miei figli mi hanno rimesso in moto. Non rimpiango però di essere stato con i miei fratelli, è stata un’esperienza formidabile che mi ha aiutato anche dopo.

La mia famiglia è sempre stata al primo posto. Le ragazze mi piacevano, mi divertivo a stare in loro compagnia. Andavamo in montagna nei rifugi, i miei fratelli hanno trovato la ragazza in montagna. C’era un romano che mi diceva “ma a te non te se appiccica nessuna?” ma probabilmente avevo la testa sempre in famiglia. Nessuna mi ha obbligato, è stato istintivo.

Il mio unico amore è stata mia moglie. L’ho incontrata quando avevo 38 anni, era una mia collega. La prima volta che abbiamo parlato da soli fu quando l’accompagnai a casa dal lavoro, perché aveva perso il treno. Siamo entrati subito in sintonia, stesse idee e valori. È stato facilissimo, anche perché ho sempre pensato che sia indispensabile tendere all’altro per trovare la relazione che funzioni.

I miei figli hanno idee diverse, io li lascio liberi di scegliere le loro vie. Mia moglie è più restia, li tiene un po’ più stretti, è più prudente. Parliamo e spero che qualcosa rimanga. Ho avuto dei momenti in cui sono stato autoritario, ma ora sono autorevole. Mi sono accorto che ormai non hanno bisogno più di sermoni, ma di vedere quello che faccio io. Io ho sempre detto quello a cui miro, i miei pensieri, i miei valori, adesso mi limito ad agire. Loro vedono che quello che faccio è quello che ho detto. Mia figlia non frequenta la parrocchia, tuttavia piace anche a lei fare volontariato, è molto sensibile e mi vuole bene. Mio figlio invece la frequenta e mi piacciono le discussioni che faccio con lui sui quesiti della vita. Credo che ogni persona sia irripetibile e unica, è un patrimonio che deve essere rispettato per quello che è.

Ho passato dei momenti felicissimi con i miei figli che mi hanno insegnato molte cose, sono dei giudici tremendi. Ti fanno imparare a vivere, io ho imparato a vivere anche dai miei figli e da mia moglie.

I miei genitori proponevano, non imponevano. Io dicevo spesso no, ma tutte quello che mi insegnavano mi restava dentro e arriva poi il momento in cui tutti quegli insegnamenti ti risuonano, è come una voce che ti parla, vengono a galla e li fai tuoi con tutte le diverse sfumature in base al tuo vissuto. Ho capito che i miei figli si sono resi conto che io non sono perfetto. Hanno capito che ho delle debolezze e da loro imparo, quando mi rinfacciano qualcosa che faccio in modo sbagliato accetto le loro critiche. Si cresce anche così. L’importante è trasmettere con l’affetto, sia che si incoraggi sia che si rimproveri. Senza amore, succedono solo disastri.

Mi piace correre, cantare, vado a cantare in parrocchia, sono un tenore. Prima quando abitavo a San Silvestro facevo cose più impegnative, perché ero in un coro polifonico. Cantare nel coro è un modo per integrarmi e comunicare con le persone. Mi sono accorto che quando entri in un gruppo già formato, devi farlo in punta di piedi. A volte vuoi portare del nuovo, ma il nuovo non viene recepito, viene respinto.

Mi piace anche viaggiare, anche se non viaggio tanto. Ora sono più preso a seguire il canto, i bambini che portiamo a visitare i musei e i parchi. Sono molto impegnato e poco in casa, anche quando sono in casa non sto mai fermo, sostituisco mia moglie nel cucinare e faccio piccoli lavori manuali, seguendo le orme dei miei zii. Mi piace aggiustare le cose.

In questo momento, lavoro volentieri con i bambini perché sono più essenziali e semplici. Noi adulti siamo un po’ più complicati, abbiamo un sacco di zavorre. Ecco questi bambini mi stimolano l’essenziale.

 

Mio padre: maestro di vita

Mio padre era eccezionale, era una persona aperta verso tutti, credeva fortemente nel dialogo. Lui era democristiano, ma più cristiano che democristiano. Prima delle elezioni lo aiutai a portare il secchio della farina impregnata per attaccare i manifesti. Era da solo, in paese erano tutti comunisti. Nonostante ciò, mio papà prese più voti del sindaco eletto con i comunisti. Probabilmente grazie alla sua apertura mentale, che lo fece anche diventare presidente di una cooperativa rossa. Era un trascinatore, la gente lo ascoltava in silenzio e lui si avvicinava a tutti senza pregiudizi verso chi la pensava diversamente. Io lo veneravo, ho sentito forte la sua mancanza, quando morì io avevo solo 13 anni. Dimostrava il suo affetto non tanto con le parole, per esempio non ‘ho mai sentito dire a mia mamma “tesoro, amore”, però io lo sentivo che le voleva bene in modo particolare. Era un capomastro, i suoi garzoni dicevano che lui era il fratello maggiore del Brunelleschi. Mi ricordo quando mi portava in canna (era un appassionato di ciclismo) a vedere gli arrivi sulle stradine, pedalava forte. Eravamo in 6, due fratelli e tre sorelle a distanza di due anni circa. Mio papà mi ha lasciato dentro questa forte attenzione verso la famiglia, grazie al suo esempio e ai suoi comportamenti. Quando è mancato, io senza volerlo ho cercato di sostituirlo. Tanto è vero che io sono uscito dalla famiglia per ultimo, dopo che si erano sistemati tutti gli altri e io ero il primo.

 

La Certosa di Pavia, disegnata a china da mio padre.

 

Il cibo dei ricordi: il minestrone

Ancora adesso associo il profumo del minestrone ai campi, agli orti che c’erano lì intorno. In famiglia cucinava mia mamma, mi piaceva vederla mentre cucinava quei bei minestroni che io apprezzo ancora molto. C’era l’orto, si viveva anche di quanto dava la natura lì al momento, frutta ortaggi. Ho imparato a coltivare l’orto dal mio nonno contadino, che mi ha impostato tutte le aiuole, poi io mettevo i semi, seguivo le varie stagioni, innaffiavo, tenevo pulito. Ancora adesso mi piace fare quei minestroni pieni di verdure e con profumi intensi.Io sono un cuoco per scelta, mi piace sperimentare in cucina, ma a volte sono da inciampo a mia moglie, per cui mi ritiro. Anche mia moglie si appassiona nel cercare nuove ricette ed è stimolante questa competizione amichevole tra noi due. Il cibo aggrega, a tavola vengono fuori momenti di intimità, discorsi che magari non sei riuscito a fare perché sei sempre di fretta oppure riesci a tirare fuori cose che magari ti fanno male dentro e poi vengono appianate. Il bello della famiglia è anche questo.

I miei luoghi

Io abito a città 2000, zona Rogoredo. Frequento Corvetto e il nuovo quartiere Santa Giulia che è a ridosso di Rogoredo. Corvetto una volta era un quartiere piccolo, poi si è allargato perché si è aggiunto il quartiere Mazzini. È diventato uno dei quartieri più brutti, a detta dei media, ma la realtà non è questa. È vero che il quartiere ha cambiato fisionomia, negli anni ’70 c’erano ancora molti negozi che favorivano i rapporti tra le persone, era un ambiente familiare. Poi sono arrivati molti stranieri e la popolazione è diventata eterogenea, sono aumentati i mercatini a scapito dei negozi, che stanno chiudendo e riducono gli spazi di relazione. Corvetto è diventato il polo Sud di Milano e c’è molto assembramento di macchine e persone. Ci sono due parrocchie, una San Michele Arcangelo e Santa Rita, che è un po’ la parrocchia di frontiera con un centro culturale e si diceva fosse la parrocchia dei comunisti. L’altra è la parrocchia della Madonna Miracolosa considerata quella dei ciellini. Gli abitanti del quartiere le ritengono entrambe di eccellenza. Di là ci sono le suore e le dame di carità, dall’altra parte ci sono le suorine che lavorano per il quartiere. Queste due parrocchie sono purtroppo collocate tra quel maledetto ponte lungo autostradale che, attraversando via Marocchetti e Viale Lucania, le divide. Un obbrobrio, per fortuna c’è il progetto di abbatterlo. Il Corvetto profuma di vivacità, di cibi diversi, che arrivano dall’Oriente.

Rogoredo è composta da una parte storica con i servizi, la chiesa, il centro culturale Mondini, una biblioteca, un campo sportivo, un campo da calcio, un campo da bocce. La parte nuova, Città 2000 e Santa Giulia non ha servizi, come spesso succede si costruiscono le case, ma si dimenticano i negozi e i servizi. Santa Giulia doveva essere un quartiere modello, ma durante il giorno non è molto frequentato, perché la popolazione è giovane e lavora. I figli degli abitanti della parte storica hanno acquistato qua, per cui c’è questo scambio i nonni vengono qua a curare i nipotini.

Vivo in questa casa da 15 anni, prima abitavamo in Viale Montenero, ma la casa era diventata un po’ strettina dopo che sono nati i figli. Alla fine, abbiamo venduto quella casa e abbiamo preso questa. In questo palazzo, io sono il più anziano. Un altro luogo ben vivo nei miei ricordi è Castione della Presolana, dove andavamo in vacanza con i figli. Mia moglie aveva rinunciato al lavoro perché preferiva occuparsi dei suoi figli e quindi trascorrevano lì tutta l’estate

In montagna giocavamo a cercare qualcosa di bello nei boschi durante le passeggiate e i picnic. È lì che i miei figli hanno imparato ad andare in bicicletta. Mia figlia, che è sempre stata uno stecco come me, aveva una forza nel camminare. Mi ricordo ancora a La Thuile quella salita ripida che portava a dove eravamo alloggiati. Lei non aveva ancora 2 anni e voleva a tutti i costi scendere dal passeggino per spingerlo sulla salita. Ma anche mio figlio non era da meno: giocava tantissimo senza essere mai stanco. Erano molti i momenti di condivisione con altri e i miei figli hanno goduto di questi momenti importanti. Purtroppo, solo durante le vacanze estive hanno potuto sperimentare la libertà che io ho sempre assaporato prima di andare a scuola e la possibilità di vivere in un ambiente dove poter vedere e toccare cose e animali,

Ciò che ero, ciò che sono e ciò che vorrei essere

Da piccolo dicevo sempre no, ma ho sempre avuto un grande desiderio di volare, di andare verso l’ignoto. Ho una grande passione per gli aquiloni, perché rappresentano quella voglia di spaziare, di andare oltre, che ancora mi appartiene. È uno stimolo per andare avanti. Uno si assesta e pensa di essere arrivato, invece non si è mai arrivati. Rivangare il passato suscita bei ricordi, ma io guardo sempre al futuro. Volare soprattutto con il pensiero, per scoprire cose nuove, chi sono io, cosa ho dentro, questa voglia continua di sapere e di essere soprattutto. Mi viene sempre in mente mio nonno che mi faceva vedere le piante e mi diceva di non dimenticare le radici, però a un certo punto la pianta va potata e deve crescere, altrimenti muore. La pianta ha le radici e anch’io non dimentico le radici, però la pianta deve sempre respirare qualcosa di nuovo per crescere e allora si va sempre avanti, si guarda oltre. Sono convinto che si cresca soprattutto con gli affetti, questa è la dimensione fondamentale. Tutto quello che hai ricevuto hai voglia trasmetterlo agli altri, perché senti che è una cosa buona. Io credo che si dà quello che si è ricevuto. Se uno non ha ricevuto non può dare, poi c’è anche chi se lo tiene per sé, però è un peccato.

Da mio papà ho ricevuto l’insegnamento che quando ti senti tradito da un amico, devi sempre cercare il buono di quella persona e superare il tradimento. È così che mi comporto ancora adesso. Incontrare qualcuno è sempre un momento di crescita. Se ti metti in ascolto, puoi superare i pregiudizi e conoscere veramente quella persona. L’insegnamento di mio padre e la mia esperienza mi hanno portato a questa conclusione. Nei rapporti è fondamentale il rispetto, non voler avere sopravvento sull’altro, ma essere disponibili a cercare e trovare il lato positivo della persona, senza preconcetti.  Senza preconcetti sei libero di fronte alle persone. Non c’è paura, è la paura che fa male.

Tutte le mie dimensioni, fisica, intellettuale, affettiva, sociale e religiosa credo che debbano essere tenute di pari passo, altrimenti c’è uno squilibrio. Questo l’ho notato quando anch’io nella mia giovinezza ho avuto degli sbandamenti, dei tentennamenti. Alla fine, ho scelto Gesù Cristo, io mi fido di lui e sto bene, senza per questo chiudermi in un mondo solo spirituale. La persona in sé è un patrimonio nella sua unicità, è imperdibile. Io sono cresciuto in un ambiente circondato di affetti, ma ero forse un po’ egoista. Ha avuto una buona idea mio papà quando mi ha mandato in collegio. Li si è un po’ sconvolto tutto il mio essere, perché ho capito che non ero solo io. Ho imparato a condividere, ad accettare gli altri, guardare gli altri con tutti i loro difetti, lì è stato il momento in cui si è sviscerato tutto il mio essere. Durante l’adolescenza ci sono stati degli sbandamenti per via di certe ideologie. Mi piaceva Moro, poi dopo quello che accade, mi è venuta anche una certa repulsione verso la politica, perché mi sono sentito tradito. Si fa un po’ la sintesi di tutto il tuo passato, delle idee che hai cercato di seguire. La mia sintesi è che bisogna essere aperti verso tutti indistintamente, perché questo atteggiamento ti permette di capire le persone nella loro complessità.

Io ho dei sogni in questo oltre, vedo una società che un giorno sarà multietnica, ma sarà un corpo unico, spero che sia così, che diventi un tutt’uno. Gli uomini sono uomini e basta. Questo mondo si sta rimpicciolendo, non si può più parlare di scissioni. Il mondo è qualcosa di indivisibile e le persone devono sentirsi parte integrante di questo mondo. Io sono convinto che tutti debbano partire da un piano di parità. Questa mia convinzione mi dà una spinta in più per sentirmi vivo. Ho avuto la fortuna degli incontri. Minuto, ma muscoloso, calmo ma con improvvisi sprazzi di luce. Occhiali non cerchiati, che rendono visibili gli occhi in continuo movimento. Labbra che si stendono in un sorriso, ma che raramente si allargano in una risata convinta e complice. Volto sereno che poco fa trasparire. Facile scalfire la superficie, più difficile andare oltre la pacatezza del volto e dello sguardo. Gli occhi però, quelli sì diventano improvvisamente umidi quando parla del padre ed emanano luce quando ripete come un mantra quello che gli diceva suo nonno “le radici sono amare, ma danno un frutto dolce”. Cortesia, gentilezza, disponibilità, ma il confine non è ancora stato travalicato, la barriera trasparente ha qualche frattura e piccolissimi squarci, ma ancora non si è frantumata. Bisogna cercare di leggere, percepire le emozioni e la fatica e il dolore, dietro frasi in ottimo italiano, pronunciate talvolta con tono monocorde. Ci sono i sentimenti, talvolta li percepisco sulla pelle, a volte li vedo trasparire dalla postura del corpo e dagli occhi. Narra, narra episodi di vita, esprime concetti, mi pare utilizzi a volte le parole per proteggersi.

Questa era stata la mia prima impressione, poi c’è stata la scoperta di un uomo dalle salde convinzioni, molto proteso verso gli altri. Una vita vissuta in una pienezza di valori che poco o nulla sono stati scalfiti dagli accadimenti. Grazie a Giovanni per la disponibilità e la gentilezza con cui mi ha sempre accolto.