Luigia, detta Gina, è nata a Milano il 14 giugno del 1931.
I suoi occhi azzurri, profondi e trasparenti, sono vivaci e malinconici insieme. Porta addosso tutti i segni della sua storia: la schiena curva che poteva essere curata da bambina, i tanti lutti divenuti lo sguardo attraverso il quale guarda fuori e dentro di sé. E’ nata fuori dal matrimonio e probabilmente è stata accolta come chi arriva inatteso, al momento sbagliato
La storia di Luigia comincia in una cascina in zona Ponte Nuovo a Milano. Suo padre lavorava in Darsena dove caricava la sabbia per i cantieri su un mezzo trainato dai cavalli. Nel 1934 è nato il fratello Augusto (che morirà di malattia a 24 anni) e qualche anno dopo una sorella che ha accudito come fosse la sua bambina per via dei problemi di salute della madre insorti subito dopo il parto.
La sua infanzia è stata breve, l’arrivo della sorella Elena ha rappresentato un salto di età e di condizione. Le altre bambine avevano le bambole-giocattolo, la sua era vera.
La scuola è il primo luogo dove ha creduto di poter trovare approvazione, ma quello che oggi è classificato come un lieve disturbo dell’apprendimento e non impedisce un percorso scolastico soddisfacente, ai tempi era letto come una limitazione intellettiva. Oggi sappiamo che Einstein e Leonardo erano dislessici e che basta trovare il proprio modo di apprendere per raggiungere dei risultati talvolta straordinari, Luigia, tuttavia, si è dovuta fermare alla 4° elementare. Ma se questo ricordo doloroso dopo tanti anni è ancora vivo , altrettanto lo è quello di una cara maestra che le ha dato fiducia, tentando di aiutarla a superare le sue difficoltà.
Sua madre ha cominciato presto a coltivare l’idea che Luigia fosse una bambina dalle scarse capacità e da lì in poi la sua considerazione non è quasi mai cambiata. Molti anni dopo, una volta adulta, in occasione dell’ennesimo elogio per la sorella in presenza di amici e parenti, Luigia ha finalmente trovato il coraggio di chiederle se fosse proprio sicura che anche lei fosse sua figlia..
In casa non si è mai sentita completamente accettata, nonostante questo ha sempre provato un grande amore per la sua famiglia.
Alla sorella riconosce il merito di una dedizione totale verso la madre, ma si intuisce che la differenza di carattere e aspirazioni ha creato una profonda frattura fra loro. Del fragile fratello Augusto invece ha nostalgia e dice con commozione di averlo nel “sangue”, proprio come l’adorato padre, morto di crepacuore a soli 56 anni poco dopo la perdita del figlio.
Il dolore per le tante ferite d’amore, le ore trascorse da piccola in una bacinella di zinco in cortile, l’insuccesso scolastico, le accuse di non essere capace di trovare un lavoro, le scarse cure ricevute non le hanno impedito di diventare una donna indipendente, che ama leggere, che ha cresciuto amorevolmente i propri figli, che cura con gusto la casa, che ha trovato sempre il modo di guardare avanti e rialzarsi dalle cadute.
Gina è riuscita a fare tutto quel che doveva, ma il dolore è rimasto intatto a farle compagnia per un’intera vita.
Era tutto Parco Lambro e l’acqua del naviglio si poteva bere
Quando ero bambina non c’era la via Palmanova, era tutto Parco. Ho visto costruire le case e assistito alla nascita di un pezzo di città. Ai tempi, in fondo al parco, c’era un mulino dove si andava a “sacramentarsi” le gambe per spigolare il grano e portare a casa un pochino di farina.
L’acqua del Naviglio si poteva anche bere, c’erano i pesci, ci si faceva il bucato e, appena la stagione lo permetteva, ci si faceva il bagno. Ai tempi con la saponetta ci si lavava anche i denti. In estate i ragazzi ci passavano le giornate a schiamazzare mentre noi ragazze, con il nostro costumino, ci andavamo verso sera. In altre occasioni il bagno si faceva all’aperto, in un mastello d’acqua intiepidito dal sole. Verso i 14 anni ho cominciato a desiderare maggiore riservatezza e la mamma mi ha permesso di andare ai Bagni Pubblici di Porta Venezia. Andavo in tram il venerdi perché il sabato c’erano gli uomini. Il tram di allora sembrava quello dei film western. Sotto la pensilina di Porta Venezia c’era il capolinea del Tram per Crescenzago e Vimodrone. Il biglietto si faceva in carrozza e tutto era molto preciso e ordinato.
I negozi erano tutti milanesi e la via Padova era nominata la seconda via Montenapoleone. Era un piacere fare le passeggiate a guardare le vetrine fino a Corso Buenos Aires. Sotto Natale i negozianti gareggiavano con il viale Monza a chi metteva le luci più sfarzose. I passatempi di allora erano le passeggiate e le domeniche all’oratorio. Molte delle coppie che si sono poi sposate si sono conosciute lì. Fuori dall’oratorio si andava dalla Madonnina del Ponte vecchio, ho ancora il testo della canzone: La Madunina del Pont De Crescenzag di Don Enrico Bigatti – Musiche D. Dusi
“Te se ricordet , in temp de guera quand, o Madona, i por giovinott del Bosc, di Trecà, de via Berra, de tutt Crescenzàg, con’t el fagott pasavan de chi per andà ‘l front e Ti te piangèvet in sul pont?
Ritornello: Quand la matina un a lavorà. E quand la sera se vegn a cà, la Madunina l’è semper là”
Chi la dura la vince
Anch’ io ho conosciuto mio marito da bambina. Quando abbiamo deciso di sposarci Mario ed io avevamo 25 anni. Me lo ero ritrovata per casa a seguito di un equivoco a 18 anni.
A me, ai tempi, piaceva un altro ragazzo, Luigi il mio primo amore. Ci tenevamo per mano e facevamo delle lunghe passeggiate nei prati verso la cabina elettrica per il piacere di stare insieme. Purtroppo lui era malato di tisi e ogni tanto andava in sanatorio. Il giorno che ci siamo parlati seriamente, dal momento che ci stavamo innamorando l’uno dell’altro, mi ha detto “tu sai che cosa c’ho io? Ho bisogno di cure e devo andare via per tanto tempo” e io: “tu vai che io ti aspetto”.
Credo gli avessero appena fatto sapere che avrebbe avuto vita breve perché quel giorno trovò il modo di dirmi che la nostra doveva rimanere una bella amicizia, nulla di più.
A me non è rimasto da fare altro che accettare quella decisione.
Mario, mi stava dietro da tempo. Con molta chiarezza gli avevo sempre detto che non ero interessata a lui, ma una sera lasciai che mi accompagnasse sulla strada di casa.
Una volta arrivati al portone del cortile, mentre gli ripetevo ancora una volta che non ero interessata alle sue attenzioni tenendo la sua mano tra le mie, mio padre ci sorprese e mi mollò un ceffone.
E’ stata l’unica sberla che ho ricevuto da lui.
Ricordo il bruciore non tanto del viso, quanto del suo approfittare di quella innocente circostanza. Sapeva che volevo bene ad un ragazzo malato e ha colto quell’occasione per decidere della mia vita, credendo forse di fare il mio bene
Mi ha detto: fila dentro!
Sono rientrata, ero stordita e mi sono messa con la mamma a mettere a posto le brande. Mentre lo aspettavo e lui non arrivava, le domande si affollavano. Mi chiedevo perché non rientrasse e intanto speravo che si fosse fermato a chiacchierare con un vicino.
In realtà era con Mario e ad un certo punto sono entrati in casa. La situazione sembrò fin da subito molto chiara perché mio padre mi ordinò di rivestirmi e di accompagnarlo al portone. Una volta fuori le parole di Mario furono “hai visto Gina, chi la dura la vince” . Sì, aveva vinto da lì in avanti ha cominciato a venire per casa.
Ai tempi avevo tanti capelli e li raccoglievo in una treccia che mi faceva la mia mamma. Le mie amiche mi dicevano che era arrivato il momento di tagliarla perché vicino a Mario non sembravo la sua morosa ma la sua bambina. Mario non era d’accordo e mi diceva che se avessi tagliato i capelli, si sarebbe fatto crescere i baffi. Sapeva che a me gli uomini con i baffi non piacevano, ma io mi sono fatta convincere dalle amiche ad andare dal parrucchiere a tagliare i capelli e a fare la permanente. Sapendo a che ora arrivava, mi sono messa sulla porta di casa ad aspettarlo. Quando mi ha visto ha girato i tacchi e se n’è andato. Da quel giorno si è fatto crescere i baffi. E con i baffi è morto.
“Non ci siamo mai urtati”
Il matrimonio è durato quasi 40 anni. Tra noi c’è sempre stato rispetto e la capacità di accettarsi per quello che eravamo. Sono stata abituata a non chiedere niente sin da piccola e per questo ho accettato senza troppe storie che Mario si dedicasse agli amici e ai tanti hobby più che a me. Gli piaceva pescare, giocare a bocce ma soprattutto allenare a calcio i ragazzi dell’oratorio. Per il nostro 25° anniversario mi sarebbe piaciuto fare una crociera in giornata sul Lago, ma lui era impegnato e mi ha detto di andare con mia cognata Emilia. Spesso ho condiviso delle belle giornate in sua compagnia anche se ogni tanto non mancava di ricordarmi ironicamente che non ero sposata con lei ma con suo fratello. Il 25° di matrimonio, così come tante altre gite a Como per bere un caffè nel periodo della fioritura delle Azalee o con gli amici della lirica per assistere a qualche opera teatrale, le abbiamo trascorse insieme.
Certamente mi è mancato qualcosa, ma io e Mario non ci siamo mai urtati..
Il mio grande amore sono stati i figli
Quando Roberto e Luigi erano piccoli, per Natale, gli regalavo una scatola di Lego per uno. Non avevamo molte possibilità, ma anche quando hanno saputo che eravamo noi e non Gesù Bambino a portare i regali, ho sempre fatto in modo che non mancasse mai un pensiero per loro. Tenevano i soldi da parte per completare la costruzione e dove non arrivavano loro, aggiungevo il necessario per realizzare il loro desiderio. Ogni tanto mi doleva dire che avevo solo i soldi necessari per comprare il pane e il latte, ma loro hanno sempre capito e accettato la nostra condizione con senso di responsabilità.
Ricordo di una volta in cui mi prese il magone al pensiero di avere fatto troppo poco per loro. Confessai a Roberto che mi faceva male il confronto con quei genitori che avevano potuto dare di più ai propri figli, lui mi guardò negli occhi e mi disse “mamma, tu per noi hai fatto tutto: ci hai dato l’amore”.
“Gina, tira fora el germoi” – tira fuori il germoglio –
Verso i 50 anni, la depressione che forse covavo da tempo, ha cominciato a farsi sentire.
Mario invitava sempre qualcuno a mangiare la domenica e quel giorno mentre facevo i gnocchi, sintonizzai la radio su una stazione dove parlavano dialetto milanese. Non so come né perchè decisi di chiamare in diretta. “Sono la Gina Di Gorla, vorrei parlare con la signora Carla (conduttrice della trasmissione) “ è la prima volta che chiami Gina?” “ Sì sì è la prima volta” e io “metti su una bella canzone per tutti” e butto giù il telefono. Per tutta risposta una signora presente in trasmissione, rivolgendosi a me tramite la radio, mi invita calorosamente a “tirar fuori il germoglio” e aggiunge “ Gina, se sei ancora all’ascolto, sappi che noi giovedì sera ci troviamo alla tale osteria e cantiamo in milanese”. Era un’osteria vicino al Naviglio Grande che conoscevo perché ci si andava da giovani alla domenica pomeriggio a sentire Nanni Svampa. Nel frattempo arriva mio marito e sente parlare in radio di questa “Gina Di Gorla” e dell’invito del giovedì. A quel punto, prendendo la palla al balzo dico a Mario che quella “Gina Di Gorla” lì sono io e che la settimana dopo voglio andare all’Osteria dove cantano i “semper alegher”.
E’ stato l’amico di Mario invitato quel giorno a pranzo a convincerlo ad accettare la mia richiesta e così, il giovedì successivo, andiamo all’osteria. Entriamo, e dal fondo del locale la Carla e il marito ci vengono incontro. Combinazione vuole che i nostri mariti si conoscessero perché avevano fatto entrambi i tassisti. Dopo un po’ mi raggiungono due signore che al momento non riconosco, ma che dicono di avermi vista nascere e si ricordavano di me ai tempi dell’oratorio. Capisco subito che tutto questo mi fa un gran bene..
Da quel giorno l’appuntamento del giovedì diventa per me l’occasione uscire e di stare in mezzo agli altri.
Si organizzavano visite domenicali con i “Semper Alegher” nei vari istituti tipo il “Piccolo Cottolengo” dove si portavano pacchettini di caramelle donate dalle fabbriche di dolciumi e preparati durante la riunione del giovedì. La cosa bella è che Mario veniva con me, tanto è vero che teneva da parte durante la settimana delle monetine e comprava i toscanelli da portare ad alcuni pazienti.
Ho smesso di frequentare il gruppo quando ho chiesto di organizzare una visita in un Istituto di Melegnano dove era ricoverata mia madre e hanno fatto difficoltà. Quel fatto mi ha deluso e ferito profondamente fino a farmi decidere di interrompere i miei rapporti con loro, ma intanto non solo ero riuscita a mettere da parte la depressione, e soprattutto avevo capito come affrontarla quando la sentivo arrivare. Ancora oggi quando accade mi dico: “Gina vada via il cuore, vestiti e vai a fare un giro”, allora esco vado alla Coop dove le commesse ormai mi conoscono e mi chiamano per nome.
Anche quando ero piccola il medico, interpellato da mia madre, aveva capito che c’era qualcosa in me che andava oltre la tristezza e mi aveva consigliato la stessa cosa “quando sei giù, prendi tua sorella e vai a fare un giro”. Probabilmente questa è la cura giusta per me.
Il bene tra suocera e nuora
Nel 1963 per contribuire alle spese della famiglia ho trovato un lavoro in uno scantinato dove si confezionavano a cottimo le scatole delle siringhe. Mio figlio Roberto era piccolo e ho chiesto a mia madre che mi tenesse il bambino nelle ore in cui mi assentavo da casa. Anche quella volta mi negò il suo aiuto procurandomi l’ennesimo dispiacere. Sono tornata a casa in lacrime e la cosa non sfuggì a mia suocera che era un vero caporale “cosa c’è da piangere? se piangi vuol dire che c’è un motivo..” Le spiegai che volevo lavorare ma che mia madre non poteva tenere Roberto, e lei “prendi un fazzoletto, asciugati gli occhi e vatti a lavare la faccia, il bambino starà con me”. Aveva il suo carattere, ma siamo state entrambe capaci di stare vicina l’una all’altra e quando ho avuto bisogno è stata presente.
Entrambi i miei figli hanno avuto dei grandi dispiaceri in famiglia: la moglie di Luigi è mancata lasciando due bambini, mentre mio figlio Roberto insieme alla moglie Clara hanno perso il figlio Lorenzo di 8 anni. Quando mio nipote era all’ospedale sono andata a Desenzano da loro per aiutarli con la sorellina Ilaria che andava a scuola. Clara stava sempre con Lorenzo, notte e giorno e quando veniva a casa per qualche ora, io le domandavo cosa potessi fare per lei. Chiedeva sempre solo di andare 5 minuti dalla vicina di casa a bere un caffè.
Ora Ilaria ha 25 anni e sta facendo medicina (aveva deciso di diventare medico quando suo fratello era piccolo) e mia nuora Clara è stata nel tempo la persona che mi ha aiutato ad affrontare i miei problemi di salute. Quando, ad un certo punto, mi sono accorta di avere qualcosa che non andava, le ho confidato i miei disturbi lei mi ha organizzato una visita dall’oncologo. Ha capito subito che avevo una brutta malattia. Quando ho avuto bisogno di un aiuto ho potuto contare su di lei, sulla sua esperienza e anche sulla sua delicatezza. Al mio arrivo a Desenzano, quando sono andata per il ricovero in ospedale, mi sono trovata tutte le camicie da notte rinfrescate..
Il tiro alla fune
Dopo l’ultima volta che ci siamo viste per continuare la mia storia di vita, la notte ho sognato il gioco del tiro alla fune (n.d.r. avevamo parlato dei giochi dell’infanzia). E così, durante il sonno, ho preso un angolo del piumone e ho cominciato a tirare. Tira, tira e sono rotolata giù dal letto. Mi sono ritrovata a terra con il piumone in mano e non ho subito capito dove fossi e cosa fosse accaduto, ma non mi sono persa d’animo. Calcolando bene a cosa aggrapparmi (non al comodino senno veniva giù tutto, abatjour compresa) mi son tirata su.Ogni tanto mi torna in mente la scena e rido da sola. Ho preso una gran botta, anche alla testa, ma mi sono rialzata.
Come sempre.
La biografa di Gina è Giusi