Angela è nata nel 1929, e la sua vita si è snodata nell’arco di pochi chilometri, tra Rho, Musocco e il Gallaratese. La Rho degli anni Trenta che mi descrive appare come un luogo mitico, dove era bello vivere. La vita dura e densa di avvenimenti tragici non ha toccato il suo carattere forte e combattivo. Del quartiere dice: “Questa è casa mia, quando arrivo qui mi si apre il cuore”.

Giovanna è la sua biografa.

Ero la più sveglia e non avevo paura di niente

Sono nata a Rho, in un cortile dove c’era la mia casa e anche una cascina. In via Matteotti 53, la via principale di Rho. Rho non era come adesso, c’erano i sassoni per la strada, dopo hanno messo i negozi.

La mia mamma, Maria, faceva la magliaia, era pugliese. Anche il mio papà, Domenico, era pugliese, era maestro, poi è venuto qua a fare l’operaio all’Alfa Romeo. C’era qui anche sua nonna, Rosa, che però conosceva la mia mamma e mia nonna, di Barletta. Tra due nonne hanno fatto il fidanzamento: il mio papà ha sposato la mia mamma in Puglia e poi l’ha portata a Rho.

D’inverno era freddo, la mamma mi portava nella stalla della cascina per farmi stare al caldo. Forse proprio tutto quel fieno mi ha fatto diventare asmatica.

Siamo cinque sorelle: io sono la più grande; la seconda, Rosa, è malata di Alzheimer, la terza, Vincenzina, è morta qualche anno fa. Poi c’è Nuccia, che ancora abita a Rho. La più piccola, Vittoria, mi considera come una mamma perché durante la guerra la mamma era malata e spesso era in ospedale e perciò la curavo io, restavo a casa invece di andare a scuola.

Ero la più grande, la più sveglia, non avevo paura di niente, mandavano sempre me a chiamare la levatrice quando stava per nascere un bambino.

A 3-4 anni andavo all’asilo, alle Pie Signore, in via Asilo. Andavo dalle suore: c’era suor Teresa, era piccolina ma tremenda, tutti avevano paura di lei. Facevamo teatro e io stavo sempre sul palcoscenico, ma ero birbanteeallora lei mi sgridava e voleva picchiarmi sulle mani. Io però scappavo, correvo intorno alle colonne, suor Teresa mi correva dietro ma non mi prendeva mai. Facevamo anche le marcette.

All’asilo si mangiava, c’erano i banchi con i buchi dove stavano le scodelle. A me piaceva mangiare lì, davano la minestra d’orzo: mi piaceva tanto perché faceva la pànera, una specie di patina sopra, che a me piaceva da morire.

Ero contenta, difatti io ero felice di andare all’asilo, cosa che non succedeva con le mie sorelle: loro andavano e piangevano. E quando sono diventata grande e stavo a casa la mia mamma mi mandava a vedere le mie sorelle. Io suonavo alla porta, apriva suor Teresa, mi lasciava passare e vedevo che le mie sorelle erano là in un angolo che piangevano perché non volevano stare all’asilo.

La mia vita l’ho passata all’asilo e poi a giocare a casa. Allora si giocava tanto fuori, avevamo un bel cortile grande, lì c’era un albero di moroni [gelso], grandissimo. Di pomeriggio le donne si mettevano lì sotto, all’ombra, mettevano l’asse da lavare e si sedevano una di qua e una di là e giocavano a carte, e a me piaceva stare lì a guardare.

Sono andata a scuola a 6 anni. A scuola ero una ragazza normale. In quinta ero una giovane italiana, come tutte le bambine. Nella piazza di Rho facevamo la ginnastica davanti al dottor Candiani, era un fascista: lui stava davanti al Municipio e noi con la gonna nera, la camicia bianca e il cappellino facevamo gli esercizi con le bacchette e il cerchio. Andavo anche al campo sportivo a Biringhello: si andava via la mattina con lo zainetto e si stava lì a mangiare. C’era una tettoia, c’era la piscina, facevamo il bagno e poi ci davano la merenda, una marmellata quadrata, poi tutti in fila si tornava a casa.

Ho in mente anche quando il dottor Candiani ha fatto levare le vere. Ero curiosa e sono andata a vedere in Municipio, c’erano i vasi pieni di vere. A scuola in quinta elementare ho fatto un tema sull’Italia, l’ho scritto talmente bene che la mia maestra Baldessari che abitava in Corso Sempione m’ha preso e mi ha fatto girare tutte le classi: dovevo leggere il mio tema e tutti mi battevano le mani perché ho fatto un tema che era la fine del mondo.

Il mio papà era bravissimo in italiano. Lui mi amava, mi adorava. Quando sono nata la mia mamma diceva che ero brutta come una scimmia, invece lui diceva che ero la sua bella. Io assomiglio al mio papà, ci litigavo anche. Una volta abbiamo litigato perché avevo comprato uno yo-yo e lui diceva che aveva un altro nome italiano, rocchetto e io invece dicevo che si chiamava yo-yo. Quando è uscito dalla stanza ho detto alla mamma: “Porca miseria, ha sempre ragione lui!”.

Lui ha sentito, è tornato, è venuto lì vicino: “Cosa hai detto?”

“Ho detto che hai sempre ragione tu!”

Però non mi ha mica picchiato! Perché mi voleva un bene dell’anima.

Quando c’erano i matrimoni mio padre scriveva le poesie e io le dovevo recitare a memoria. Se non le imparavo mi batteva con le nocche sulla fronte, “Impara”, mi diceva.

Io e le mie sorelle dormivamo in un letto a una piazza e mezzo in tre, io dormivo in mezzo: quando prendevano una nota sul quaderno a scuola e dovevano farla firmare al mio papà, dovevo andare io perché loro avevano paura. La mattina il mio papà si alzava presto per andare a lavorare, e le mie sorelle mi davano le pedate per farmi alzare. Così lui mi vedeva arrivare sulla porta con i quaderni e mi diceva. “Devo firmare, vero?”. Io rispondevo di sì e lui rideva. Io non ho mai avuto note. Io proteggevo le mie sorelle, guai a chi le toccava.

Sono stata sempre stata promossa fino in quinta elementare. L’unica che ha fatto le medie è la mia sorellina Vittoria, la più piccola, sono stata io a convincere la mamma perché a mia sorella Vittoria piaceva andare a scuola. La mia mamma, dopo la quinta elementare, ci mandava tutte a fare la sarta dalla signora Scotti in via Pomé. Quando entravo in cortile c’era sempre la nonna della Giacomina lì fuori. Quando mi vedeva diceva: “Guarda quella tosa lì, la g’ha le tette che si mettono in una coppa di champagne!”. Non sono mai stata bella, ma avevo un vitino sottile, ero una ragazzina sempre magrettina e svelta.

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