Il ballo della vita

Adriana è una signora socievole e amorevole. La sua alta statura potrebbe erroneamente farla apparire come una persona autoritaria e decisa, mentre, in realtà, ha un carattere sensibile e accomodante. Le esperienze della vita l’hanno resa più forte, ma non sono riuscite a indurire un cuore grande, pieno d’amore, di voglia di vivere e ballare. Anche se le gambe non la reggono più, Adriana balla con gli occhi e con parole che raccontano episodi felici, dolorosi, lontani e vicini nel tempo, vissuti con persone di passaggio e compagni di una vita. Una vita più simile a una polka che a un valzer, vissuta con grazia, intensità e attesa come un ballo che si vorrebbe non finisse mai.

Il vetro che ci separa si frantuma in un attimo, appena lei, con spontaneità, mi rivolge un complimento sui lunghi capelli, che io, in un gesto di timidezza, raccolgo da un lato del collo. Poi le poche parole con cui le racconto qualcosa di me e delle mie origini, come vento soffiano via ogni imbarazzo. Forse è proprio in quel momento che tutto inizia, come una scintilla che inaspettatamente accende i suoi ricordi, ricordi piacevoli di persone che l’hanno sempre accolta e aiutata, che l’hanno fatta sentire a casa e così in un istante mi sento a casa nella dimora di un’estranea mentre lei rivive emozioni lontane nel tempo e nello spazio, presso abitazioni che esistono solo nella sua memoria. Da queste memorie inizia un fiume di parole che ci porta dalle origini al presente e di nuovo indietro nel tempo in un turbinio di emozioni che mi colgono impreparata. I ricordi sono così intensi e schietti che rivivo con lei i suoi stati d’animo, talvolta ridendo altre trattenendo le lacrime. Sono emozioni che lasciano il segno e mi accompagnano per il resto della giornata e nel racconto di questa esperienza che mi ha toccato il cuore.

Narratrice: Adriana Boselli

Biografa: Claudia Pagano

Mantova – Gli amici d’infanzia

La Iolanda

Ho dei bei ricordi di quando ero piccola e giocavo in cortile, anche se ci potevo andare di rado. Con alcune coetanee giocavo alla campana oppure coi sassi; a nascondino giocavo poco perché in quel caso subentravano i maschi e mia madre mi chiamava immediatamente di sopra. Non voleva che giocassi con i maschi e riteneva che le bambine dovessero stare in casa. Di tanto in tanto, quando ero alle elementari, veniva qualche compagna di classe a casa, facevamo i compiti insieme e mia madre ce li correggeva. Finiti i compiti, si giocava insieme a casa. Giocavo soprattutto con alcune vicine; la Iolanda, più piccola di me di un anno, era quella a cui ero più legata. In famiglia erano otto figli, il padre era un generale, morto per ferite di guerra quando loro erano ancora piccoli, forse la Iolanda non l’ha neanche mai conosciuto. Avevano avuto prima quattro maschi e poi quattro femmine e, come se non ne avessero abbastanza, avevano adottato una figlia. La trattavano, però, come una donna di servizio. Avevano promesso di darle il cognome, ma non è mai accaduto. I figli non facevano nulla in casa e nessuno di loro aveva mai dovuto lavorare. I ragazzi erano soldati, due nell’aeronautica, un marinaio e il più giovane nell’esercito; sono morti tutti giovanissimi, se non in guerra, a causa di essa. La guerra li aveva resi tutti un po’ svitati. Il primo è morto in seguito ad un incidente stradale. Era in motocicletta con la sua ragazza, in procinto di sposarsi; guidava come un pazzo. La ragazza è morta dopo ventiquattro ore e lui è deceduto sul colpo. Nazzareno è morto in guerra. Gianluigi è morto a causa di una malattia contratta in guerra e Filiberto per una patologia polmonare. Era sposato con due o tre bambini ed era venuto ad abitare con la famiglia dove abitavo io. Delle sorelle non so più nulla, forse qualcuna è ancora viva. Miriam era più grande di noi e non eravamo molto amiche, so che si è sposata, è andata a Roma e che è morta una decina d’anni fa. La seconda, la Benita, abitava a Milano; le ho telefonato due, tre anni fa e la badante mi ha detto che aveva l’Alzheimer. La malattia l’aveva resa stupidina, non come mio marito che era agitato. Quando le ho parlato al telefono mi ha detto che la Iolanda era lì da lei insieme all’Ebina, la sorella adottata, ma io sapevo che la Iolanda era morta già da vent’anni. Non ci stava più con la testa; era sempre stata una persona solare, sentirla così mi faceva una gran tristezza e poi avendo avuto mio marito con quella malattia lì, non ho più avuto il coraggio di chiamarla. Penso che ora sia morta anche lei. Delle altre due sorelle non so molto, mi avevano detto che l’Augusta si era trasferita a Portovenere e aveva sposato un colonnello dell’esercito molto più anziano di lei. Dopo essermi trasferita a Milano non le sentivo spesso.

Due angeli innamorati

Ho saputo della morte della Iolanda quasi per caso. Per un po’ di anni ci siamo viste qui a Milano quando lei, nel periodo di Natale, veniva a trovare la sorella per un mesetto. L’ultimo anno che ci siamo viste siamo state molto bene; sono venute a pranzo da me, ho preparato i ravioli, che le sono piaciuti molto. Di solito non ci sentivamo durante l’anno, ma solo a Natale quando veniva a Milano. Un anno mi sono resa conto che non c’eravamo sentite l’anno precedente. Io avevo il problema di mio marito e tante cose per la testa. Quando chiesi notizie alla sorella mi disse che era morta di tumore all’intestino pochissimo tempo dopo la diagnosi. Poverina, non ha avuto una vita facile! Si era fidanzata molto giovane, a 14 o 15 anni, prima ancora che mi fidanzassi io, con un bellissimo ragazzo. Erano entrambi biondi e molto belli, sembravano due angeli. Lui era figlio unico di una famiglia benestante contraria alla loro relazione. Dalla parte di lei erano più poveri, la mamma aveva un’ottima pensione, ma i figli erano tanti e si era sempre solo occupata della famiglia, non sapeva fare nulla, andava solo in chiesa e vivevano tutti unicamente con la pensione del marito morto in guerra. Dopo grandi insistenze, i genitori del ragazzo sono riusciti a fargli sposare una ricca ereditiera, una proprietaria terriera. Il matrimonio è durato solo cinque o sei mesi e poi si sono lasciati. Lui e la Iolanda saltuariamente si sono sempre visti. Lei voleva un figlio, ma lui non se l’è sentita, Di conseguenza, la Iolanda, per sua stessa ammissione, è andata con il primo che è capitato, il meccanico che le riparava la macchina. Lui era già sposato e lei voleva solo avere un figlio, nessuna relazione, niente amore. Ha fatto di tutto per il figlio, bellissimo, molto simile ai fratelli e un po’ svitato come loro. É andata anche a lavorare in Inghilterra per mantenerlo e offrirgli tutto. Il ragazzo dopo il diploma non ha più voluto studiare, ma era intelligentissimo ed era riuscito a trovare un bel lavoro. Un giorno, poco dopo l’assunzione, mentre stava andando al lavoro in macchina si è accorto di aver dimenticato le chiavi a casa ed è tornato a prenderle; ripartendo di corsa, per paura di far tardi, ha avuto un incidente ed è morto. La Iolanda, poverina, ha sofferto tanto e da allora si è ammalata.

La mia famiglia

Né aspettata né desiderata

Quando sono arrivata io, ho rovinato i piani di entrambi i miei genitori. Non ero né aspettata né desiderata. Mia mamma è sempre stata una persona pratica. Era stata fidanzata tre anni con un ragazzo malato di tubercolosi, finché la futura suocera le ha consigliato di lasciarlo dicendole: “Se si sposerà, mio figlio avrà bisogno di una donna forte che vada a lavorare e l’aiuti perché non potrà mai lavorare; tu sei giovane, sei carina, te ne puoi trovare un altro”. Avendo compreso la debolezza di quest’uomo, lo lasciò. Poi ha conosciuto mio padre. I miei nonni avevano una latteria e tutte le figlie si alternavano a lavorare nel negozio, mentre i nonni vendevano in giro per la città con il carrettino, come si faceva all’epoca. Un giorno mentre la mia mamma era sulla porta della latteria e mangiava delle spagnolette, passò mio padre che si stava recando da un amico che, proprio accanto alla latteria, riparava le biciclette. Si fermò vicino a mia mamma e le rubò una spagnoletta. Cominciò così e continuò a mangiare le arachidi chiacchierando con lei. Le chiese se avrebbe trovato le spagnolette anche il giorno successivo e così iniziarono a vedersi. Si fidanzarono in breve tempo e dopo tre mesi mia madre era incinta. Ero la sua vergogna perché si sono sposati a gennaio e io sono nata ad aprile. La sua vergogna. Me l’ha sempre rinfacciato un pochino con mio grande dispiacere. Un giorno, ormai grande, ero già sposata, le ho detto: “Senti mamma, sul divano di casa della nonna non ci sono andata io, ci sei andata tu col papà, che colpa ne ho io, anzi meglio, almeno ci sono!”. Papà invece mi ha sempre adorata. Anche mia mamma per carità, era la mamma, ci mancherebbe, però me l’ha sempre fatto pesare.

Mio fratello Sergio

Anche mio fratello maggiore ha tribolato con lei. Come me è arrivato in un momento sbagliato, erano due anni che papà era disoccupato e la mamma era preoccupata per questa gravidanza. Papà, in quel periodo correva in bicicletta e disse: “Speriamo nasca il giorno in cui ho la corsa e che io la vinca. Vedrai, sarà un maschio!”. E così è stato, mio fratello Sergio, maschio, è nato il giorno della corsa, il 26 maggio, e papà ha vinto la corsa.

Sergio era molto protettivo con me quando ero ragazzina e iniziavano a vedersi le forme. Se qualcuno mi guardava quando passavo davanti al bar vicino casa facendo apprezzamenti sul mio conto, lui ci faceva a botte, anche se era timidissimo. Siamo sempre stati molto legati. Si è trasferito anche lui a Milano per lavoro e per parecchi anni abbiamo abitato nella stessa casa, io al quarto piano e lui al secondo, con la moglie. Quando sono venuta ad abitare qui lui è andato ad abitare in via Bari; era lontano, ma ci vedevamo spesso. Non ha avuto figli e anche lui è morto. Gli ultimi anni li ha trascorsi a Mantova dove si era trasferito.

Mio fratello Luigi

Luigino, il fratello più piccolo, è nato molto tempo dopo per cui sono stata un po’ come una mamma per lui. Persino adesso, che ha 79 anni, mi chiede le cose che si chiedono a una mamma. Ora abita a Pisa con la figlia, perché è rimasto vedovo, ma ci sentiamo al telefono quasi tutti i giorni. É sempre stato il birichino di famiglia, ma è un amore, un tesoro, ci vogliamo un bene dell’anima, anche se l’ho sempre sgridato perché ne combinava di cotte e di crude. Ora, finalmente, sembra si sia un po’ calmato. Ha un carattere terribile, molto viziato da mia madre. Lui era il figlio voluto e mia madre aveva un legame profondo con lui. A due anni e mezzo scappò di casa con suo fratello di latte, erano sulla porta di casa quando passò un funerale, e loro, attratti dal carro e dalla gente, li seguirono; nessuno si accorse che non c’erano più. Dopo qualche chilometro a piedi si stufarono, videro che c’erano dei giardinetti e si fermarono. C’era un fosso con dell’acqua, si denudarono e ci si buttarono dentro per rinfrescarsi. Dei militari li videro da soli e si avvicinarono, gli diedero della cioccolata e dei biscotti offrendosi di accompagnarli a casa; loro presero da mangiare, ma non ne vollero sapere di tornare a casa. Erano tranquilli, mentre noi tutti eravamo molto agitati; li cercavamo ovunque, mia madre piangeva disperata. Per fortuna, la Iolanda propose di andare a cercarli in bicicletta. Girando, girando, notò un gruppo di militari intenti a parlare con qualcuno. Era molto timorosa di avvicinarsi a tanti uomini tutti insieme, si vergognava un po’, ma si fece forza convincendosi che non l’avrebbero mangiata. Una volta avvicinata, vide i bambini tranquilli, divertiti e tutti sporchi. Non so come riuscì a convincerli a tornare, li caricò uno in sella e uno non so dove e li riportò a casa. Appena mia mamma li vide corse a stringere forte mio fratello. Mentre la mamma dell’altro li rimproverava con parolacce in dialetto mantovano, bestemmie e botte, mia mamma teneva in braccio mio fratello e non smetteva di baciarlo; non lo dimenticherò mai.

La guerra

La guerra per i civili

Mio padre era carabiniere a cavallo, veniva richiamato ad ogni guerra e non sapevamo quando sarebbe tornato. Noi vivevamo con la mamma, facevamo tanti sacrifici, ma ci aiutavamo anche gli uni con gli altri.

Prima che nascesse mio fratello Luigi, la mamma ci portava tutti i pomeriggi al bosco Virgiliano insieme ad una sua amica con i figli. Dovevamo fare un bel po’ di strada, ma ci faceva piacere andare. In quel posto giocavamo, facevamo merenda e poi mia madre chiedeva a me e a mio fratello Sergio di raccogliere le verdurine. Ci aveva insegnato a riconoscere e raccogliere verdure diverse in base alle stagioni. A febbraio e marzo, ad esempio, anche in mezzo alla neve, c’erano dei radicchi piccolini e molto teneri che erano una bontà, poi sopraggiungeva l’erba matta, non saprei dire come si chiama in italiano, è un ramoscello corto di cui si coglieva solo la parte superiore. Per cena la mamma preparava la frittata con queste verdure, spesso non avevamo altro da mangiare. “Bisogna raccogliere un sacco pieno di verdura” ci incoraggiava, mentre noi avremmo voluto solo giocare. Per cui, di mala voglia, mio fratello ed io ci dedicavamo a raccogliere le verdure, sbuffando e brontolando. Lei doveva fare chilometri in bicicletta per trovare le uova e darci un po’ di proteine. Mancava anche il pane, mancava tutto. Quando possibile cucinava la polenta. Non avevamo la farina come adesso; in tempo di guerra si preparava con gli scarti presi da terra dopo il raccolto delle pannocchie. Si andava tutti insieme con un grande sacco a raccoglierne il più possibile. Era consentito, lo facevano tutti e portavano il raccolto a casa, dove veniva conservato affinché durasse tutto l’inverno. Per fare la polenta si usava il macinino del caffè e con gran fatica si otteneva la farina. “Questa sera volete la polenta? Allora forza, un quarto d’ora ciascuno!” Ci esortava la mamma. E se ci lamentavamo della stanchezza e non volevamo macinarla, ci informava che la polenta era l’unica cosa che si poteva avere per cena quella sera. Un quarto d’ora ciascuno al macinino del caffè e ottenevamo la polenta. Era impegnativo e non restava molto tempo per giocare. Anche il bucato era un lavoro di gruppo: mia mamma in cortile col mastellone e noi a pompare l’acqua, un quarto d’ora ciascuno anche se era faticoso. “Io lavo e voi portate l’acqua” ci ammoniva.

I ragazzi più grandi andavano di notte su Viale Risorgimento a segare gli alberi per il riscaldamento delle case. Era un viale stupendo a Mantova, ma non hanno mai ricevuto multe o ammonimenti, nessuno ha mai fatto rimostranze perché la gente aveva bisogno di riscaldarsi. Non c’era nulla. Una situazione molto disagiata per ognuno di noi, ma ci si aiutava a vicenda come si poteva. Vivevamo in una bella casa di ringhiera insieme a tante altre famiglie, si condividevano molti spazi e ognuno sapeva tutto degli altri. Avevamo un bel rapporto basato sul rispetto, sull’educazione e sulla generosità. Una vicina che aveva partorito da poco, saputo che mia mamma non poteva allattare il piccolo Luigino, si tirava il latte e ce lo portava durante la notte. Un gesto molto affettuoso fatto con estrema sensibilità. Noi lasciavamo le gelosie aperte e lei metteva la bottiglietta del latte sul davanzale. Per ricambiare, quando la mamma faceva le tagliatelle e il brodo di carne, metteva una porzione da parte per lei. La prima porzione era per lei, affinché mangiasse bene e avesse il latte buono. In tempo di guerra eravamo tutti molto poveri e facevamo grandi sacrifici.

I rifugi

La mamma ha sempre cercato di fare del suo meglio per noi. La nostra casa era in un vecchio convento del ‘500, adesso che è stato ristrutturato è molto bello, ma allora era vecchiotto e con il pavimento sterrato. C’era un rifugio sotto l’edificio dove tutti avevano portato un letto, ma noi ragazzi eravamo terribilmente spaventati all’idea di dormirci. Appena suonava la sirena che avvertiva dell’arrivo di Pierino (uno dei nomi che veniva dato al primo aereo di ricognizione che sorvolava le città italiane durante la guerra e precedeva i bombardamenti N.d.A.) si correva giù e si rimaneva a dormire. Noi quattro dormivamo tutti insieme nel letto matrimoniale, io, mio fratello Sergio, Luigino che era piccolo e la mamma, tutti attaccati. Una sera Luigino aveva la febbre e la mamma decise di non portarlo con noi nel rifugio, pensando che nel suo letto avrebbe continuato a dormire. Ad un certo punto, però, sentimmo degli spari molto forti e molto vicini, la mamma salì di corsa e vide che un razzo era caduto proprio sul balcone di casa nostra provocando un grande incendio. Chissà come mai ogni volta che suonava l’allarme il mio futuro marito era sempre davanti alla mia porta! Abitavamo abbastanza vicini, ma non nello stesso palazzo, eppure era sempre lì quando suonava l’allarme. Quella sera, appena vide il razzo sul mio balcone, corse in casa arrivando prima della mamma che lo trovò con in braccio il mio fratellino. Come suo solito invece di essergli riconoscente si arrabbiò dicendogli: “La mamma sono io, lei cosa ci fa qua?”

Il treno dei militari

Una delle prime volte che mio padre è tornato dalla guerra siamo andati tutti alla stazione, la mamma con mio fratello Sergio in braccio o per mano era andata davanti sul binario, mentre io, che ero ancora piccola, mi trovavo più indietro con mia nonna. Lei era già anziana quando sono nata io perché mio padre era il penultimo di quattordici figli, era diventata ipovedente come me adesso e faceva anche fatica a camminare. Il treno era gremito di militari in divisa. Davanti ai finestrini c’era una prima fila e dietro altre due file piene di soldati. Mio padre era molto alto per cui, benché fosse nella terza fila, riuscii a vederlo. I nostri sguardi si incrociarono e i miei occhi si illuminarono. Fu un’emozione fortissima. Cercai di indicarlo a mia madre, condividendo con lei la mia emozione. Fu talmente commovente che non dimenticherò mai quella sensazione.

Sergio è salvo

Un’altra volta ci siamo preoccupati per Sergio, il fratello più grande. Ricordo che era sabato, era andato a fare un giro in bicicletta fuori città e quando suonò l’allarme non era ancora tornato. Le porte della città avevano delle grosse cancellate, tolte appena finita la guerra, che, in caso di pericolo, venivano immediatamente chiuse. Una di queste divideva corso Garibaldi in corrispondenza di Porta Cerese dove finiva la città; mio fratello non fece in tempo a tornare e quando vide la porta chiusa, tornò nel bosco Virgiliano per nascondersi in una buca. Sentì numerose raffiche di colpi intorno a lui e terra e pietre arrivargli addosso. Per fortuna non gli successe nulla, tornò a casa bianco cadaverico e tutto coperto di terriccio. Anche l’indomani era bianco come un morto e per parecchi giorni non disse una parola. Sembrava stralunato.

Un’altra volta Sergio ebbe la peritonite e fu operato d’urgenza in una scuola sotto i bombardamenti poiché l’ospedale non era agibile. Lo presero proprio per il rotto della cuffia, ormai sembrava fosse morto. Nessuna sala operatoria, l’hanno salvato così, in una scuola. Queste erano le condizioni in cui vivevamo in quel periodo!

I prigionieri in città

Un altro ricordo rimasto nella mia memoria è legato all’arrivo dei prigionieri. Dei partigiani nascosti tra le montagne furono presi e portati in città, passarono davanti a noi con le mani in testa, la cintura dei pantaloni tolta e le scarpe slacciate. Furono fatti sfilare lungo il corso, io e la mamma li guardammo da dietro le tapparelle pensando al mio papà, in prima linea in guerra. Era stato, come sempre, chiamato alle armi. Non si è risparmiato neanche una guerra. Eravamo lì a guardare e pensare a lui, quando, con grande spavento, ci accorgemmo che i militari si erano fermati proprio a un passo dalla nostra porta per prelevare un vicino di casa. Era una persona proprio per bene, lo portarono via mentre la famiglia piangeva. Purtroppo le cose brutte le ricordo bene.

La mia adolescenza

La piccola sarta

Ho cominciato presto a lavorare. A otto anni la sera dopo la scuola andavo dalle mie vicine di casa,le sorelle Bertoni, che di giorno lavoravano presso la sartoria delle sorelle Forlin e la sera per i loro clienti. Erano molto brave e avevamo un bel rapporto. Passavano davanti alla finestra della mia cucina per andare al loro bagno e ci vedevamo tutti i giorni. Io ero molto più giovane e si erano affezionate a me. All’inizio dovevo solo raccogliere gli spilli, infilare gli aghi, passare il gesso, e, soprattutto, guardare cosa facevano. Loro non mi insegnavano niente, volevano che rubassi con gli occhi. E così è stato. Sono state le mie maestre e ho imparato tutto da loro. Dopo qualche anno mi raccomandarono presso le sorelle Forlin, dicendomi: “La sera vieni ancora qua se vuoi, se non sei stanca, ma per farti un nome devi andare dalle sorelle Forlin”. Usavano lo stesso metodo per cui sapevo già fare tutto. A 16 anni ero maestra con delle aiutanti sotto di me. Ho lavorato lì finché mi sono sposata, poi sono venuta a Milano e ho iniziato a lavorare per conto mio.

Suora di clausura

Durante gli anni di lavoro in sartoria i miei genitori, o meglio mio padre, voleva che mi facessi suora di clausura. Durante la seconda guerra mondiale mio padre era stato richiamato e si trovava all’estero, a Spalato; vicino alla caserma abitavano delle suore di clausura. Un giorno le suore, avendo bisogno di ferrare i loro cavalli, chiesero aiuto in caserma. Mio padre, che aveva imparato il lavoro di maniscalco da mio nonno, fu mandato ad aiutarle. Il primo giorno fu ricevuto dalla madre superiora in maniera molto formale, ma con il tempo divennero amici, al punto che spesso lo incontrava anche senza velo. Mio papà era simpaticissimo, un gran chiacchierone, molto affabile, diventava amico di tutti in poco tempo. Lui le raccontava dei suoi figli e in particolare di me, perché aveva un debole per me, forse anche perché gli somiglio molto, sia fisicamente che caratterialmente. Una volta disse alla madre superiora che gli avrebbe fatto tanto piacere se io fossi diventata suora, invece di sposarmi e avere una famiglia. La suora gli propose di ospitarmi per qualche mese per valutare la mia predisposizione. A quell’epoca avevo 15 anni. Poco prima che partissi, a causa degli avvenimenti dell’8 settembre (8/9/1943 proclamazione dell’armistizio di Badoglio N.d.A.), arrivò un telegramma che dava indicazioni di non andare. Ero convinta di farmi suora, ci teneva il mio papà, avrei fatto anche questa esperienza, anche se mia mamma non era molto d’accordo. Lei era sarta e anche tutte le sorelle di papà per cui, a suo dire, quello sarebbe stato il mio destino. Era il suo desiderio anche perché ero l’unica femmina.

Papà diventa daziere

Da giovane papà correva in bicicletta, ma il ciclismo non pagava molto, guadagnava degli spiccioli e per due anni è stato senza un vero lavoro. Poi, grazie ad un conoscente, ha iniziato a lavorare in ufficio e avrebbe voluto che lavorassi con lui. Un signore ebreo, che aveva un grandissimo e importante negozio di biancheria a Mantova, si offrì di aiutarlo sapendo che aveva dei figli e cercava lavoro. Aveva avuto un’idea di cui aveva già reso partecipe il direttore della compagnia dei dazi, l’Amprica. A quel tempo ad ogni angolo e porto della città, c’erano gli uffici dei dazieri dove le merci venivano pesate per determinare l’importo dovuto. Questo signore si era offerto di stipendiare mio padre per i primi nove mesi, in seguito, se avesse lavorato bene, sarebbe stato assunto dalla ditta. E così mio padre cominciò come daziere per poi diventare ispettore capo, con il suo ufficio personale.

Scuola, chiesa e fontanone

Mia madre era molto severa e controllava ogni mio spostamento; non potevo andare a giocare in cortile perché c’erano i ragazzi né potevo uscire da sola; le uniche occasioni in cui avevo il permesso era per andare a scuola e in chiesa, a pochi minuti da casa, alla sartoria, che era all’interno dello stabile, o al fontanone a prendere l’acqua. Nelle case l’acqua sapeva di uovo marcio, forse a causa delle tubature. Ad ogni angolo di una via importante a Mantova c’erano grandi fontane con acqua ferruginosa, molto buona e anche curativa. Andavo a riempire la fiasca a mezzogiorno e alla sera, la mamma allungava il collo dalla finestra e, benché ipovedente, capiva se mi fermavo un secondo in più del necessario. Sembrava riuscisse a contare i passi e al ritorno subivo un pressante interrogatorio per sapere con chi avessi parlato. Mio marito abitava con la famiglia vicino a casa mia e chissà come – ormai conosceva i miei orari – al mio arrivo era al fontanone; mi aspettava lì o davanti la chiesa, soprattutto nel mese di maggio, quando mi ci recavo ogni sera. Si offriva di riaccompagnarmi a casa, ma io declinavo l’offerta perché se mia madre ci avesse visti, si sarebbe arrabbiata. Lei aveva capito che mi trattenevo a parlare con qualcuno, ma io mentivo dicendo che era un signore che corteggiava la mia maestra e che per questo passava da quelle parti il pomeriggio. Poiché non ci credeva, mi faceva scortare dal mio fratellino che aveva undici anni di meno, io ne avevo sedici, lui era proprio piccolino. Mia mamma gli diceva: “se parla con qualche giovanotto tu me lo dici che ti compro le caramelle” e mio marito gli diceva “non glielo dire a tua mamma, che ti do la mancia” e mio fratello assecondava mio marito e prendeva i soldini, poi a casa lo diceva alla mamma. Lui prendeva le caramelle e io le botte. A forza di prendere botte, ho deciso di sposarmelo. Sì perché all’inizio non ne avevo alcuna intenzione, poi però, per fare un dispetto a mia madre, pensai: “Mi dai le botte? E allora me lo sposo”.

Al centro di smistamento

Finita la guerra mio padre fece 700 km a piedi dalla Jugoslavia in Italia, insieme a molti altri militari. Mangiavano quello che trovavano: erba spagna, cicoria, patate, anzi bucce di patate. Alla frontiera li fermarono per portarli in un centro di smistamento a Cesenatico dove avrebbero fatto delle indagini sul loro conto poiché non avevano i documenti; non avevano più niente. Quando scoprimmo che papà era lì, io e la mamma partimmo con altre due donne, una neo-sposa e la suocera che, come noi, avevano lì il loro familiare. Prendemmo tutti mezzi di fortuna. Io avevo 16 anni, era da poco che mio marito mi girava intorno. Era estate ed eravamo sedute in un camion aperto vicino a botti di vino che dovevano essere riempite con il Marsala. Nonostante fossero vuote si sentiva un forte odore. Eravamo mezze ubriache dall’odore! Lungo il tragitto, nei dintorni di Modena, mia madre cominciò a sentirsi male, non poteva continuare con i mezzi di fortuna e dovette tornare a casa. Per fortuna essendoci anche le altre due donne, potei continuare il viaggio con loro, mentre la mamma tornava indietro. Avevamo solo pochi spiccioli per cui chiedemmo in un’osteria un posto economico dove dormire. Il proprietario, molto gentile, mise due materassi a terra per farci riposare, disse che ci ospitava volentieri e non volle niente in cambio. Restammo lì 3-4 notti.

Il giorno dopo andammo al campo di smistamento, ogni dieci metri c’era una specie di torretta, come quella dei bagnini, dove c’erano dei militari col fucile, che parlavano inglese. Io tremavo come una foglia, ma dovevo avvicinarmi; loro puntarono subito il fucile contro di noi, ma poco dopo arrivò un militare che parlava italiano e gli spiegammo la ragione della nostra visita. Prese nota dei nostri nomi e ci disse di aspettare. Siamo rimaste lì ad aspettare un bel po’, poi ci disse di ritornare il mercoledì – forse era lunedì, non ricordo – in spiaggia, dove avremmo potuto vederli per venti minuti.

Con i pochi soldi che avevamo comprammo un po’ di biscotti e poco altro da donare loro. Mercoledì mattina andammo sulla spiaggia che ci avevano indicato. Vidi mio padre in lontananza, aveva un paio dimutandoni bianchi, poverino, per il resto era tutto nudo e terribilmente smagrito. Appena mi vide, fece come per corrermi incontro, ma prima si buttò in mare per ripulirsi. Quando finalmente arrivò da me mi abbracciò forte. Restammo abbracciati per un po’ piangendo tutti e due. Stetti lì una ventina di minuti, gli diedi le poche cose che avevo e gli spiccioli rimasti; non era molto, a casa vivevamo del sussidio in tre anzi in quattro perché c’era già anche Luigino, il piccolino. Non mi rimase un centesimo per tornare a casa. Anche le mie compagne di viaggio fecero lo stesso. Nessuna delle tre aveva più nulla, ma riuscimmo a tornare a casa con una buona notizia: ci avevano promesso che entro quaranta giorni sarebbe arrivato un telegramma con le modalità per il rilascio nel caso non ci fossero motivi per trattenerli.

Mio marito Silvano

Mia figlia è ancora una bambina

Noi eravamo sicuri che papà sarebbe stato liberato, era carabiniere e non aveva fatto nulla. E fu così. Dopo 30 giorni arrivò il telegramma con l’istruzione di partire immediatamente e andare a prenderlo. La mamma non si era ancora ripresa e non poteva andare, non voleva in alcun modo farmi viaggiare da sola e i miei fratelli erano troppo piccoli. Eravamo in crisi. Provai a proporle di mandare mio marito che allora mi faceva la corte. “C’è quel signore là, quello che mi aspetta alla fontana, potremmo chiedere a lui” le dissi. Mia madre non era assolutamente d’accordo, ma nessuno dei parenti, né zii, né cugini era disponibile ad aiutarci, così mia madre dovette accettare. Mi disse: “Senti Nanna” – mi chiamavano così – “non mi è simpatico quel ragazzo” – non l’aveva mai visto – “non è un parente, però magari se va in divisa gli affidano papà”. Per fortuna mio marito era carabiniere e sarebbe potuto andare con la divisa. Andai immediatamente da sua sorella, che era una mia amica e le spiegai la situazione. L’indomani il fratello arrivò in divisa, tutto bello, guardò mia madre e le disse: “vado io, non si preoccupi”.

Quando arrivò, fece chiamare mio padre che al momento sorrise, ma poi chiese: “Scusi, ma lei chi è?” Aveva capito e non gli piaceva l’idea che io, così giovane, avessi il fidanzato, “non sarà per caso il fidanzato di mia figlia?” e quando lui gli rispose affermativamente mio padre cominciò a piangere e si rifiutò di andare con lui. Mio marito rimase sconcertato, ma non si perse d’animo. Sapeva un po’ di cose sul conto di mio padre dai miei racconti, così improvvisò: “Senta signor Boselli, le faccio un’offerta: qui fuori vendono delle belle angurie gelate, ne ho mangiata già una fetta prima di arrivare, sono davvero buone, andiamo a prendere insieme una fetta”. Mio padre adorava l’anguria e dopo più di un mese nel campo di smistamento non riuscì a resistere. Mentre mangiavano l’anguria, mio marito cercò di parlare di ciclismo, data la grande passione di mio padre, benché non ne sapesse niente. Conosceva solo i nomi di alcuni campioni: Girardengo, Learco Guerra, cominciò a nominarli sperando che mio padre avrebbe continuato a parlare di quei tempi piacevoli e così fu. Alla fine si trovarono talmente bene che mio padre si convinse a partire con lui. Tornarono con mezzi di fortuna, ma con mio marito in divisa si fermavano tutti. Mio padre, poverino, non aveva neanche le scarpe.

Quando arrivarono a casa, mia madre si rivolse verso mio marito e, indicandogli la porta con un gesto molto chiaro, gli disse che non gli sarebbe stato concesso di entrare un’altra volta. Ecco il ringraziamento! Le donne di una volta erano tremende! Lei è rimasta così fino alla fine, a 101 anni mi ha dato ancora una girata 8 giorni prima di morire.

Con mio padre fu molto premurosa, per cercar di metterlo in forze cominciò a cucinargli tante leccornie, come le tagliatelle, i ravioli, ma mio padre stava male e il medico la rimproverò perché dopo tanto tempo con un’alimentazione scarsa avrebbe dovuto ricominciare gradualmente come fosse un neonato, prima le cose liquide, poi la pastina, tutto poco alla volta. Piano piano si riprese.

Matrimonio

Mio padre era preoccupato che fossi troppo giovane per fidanzarmi. Si confidò con mia nonna e le chiese un consiglio. Lei era una donna molto matura, aveva avuto 14 figli ed era già anziana. Gli disse che eravamo destinati a prenderci e che approvava la famiglia di mio marito; era una famiglia di operai, non ricchi ma gran lavoratori, tutti onesti; una bella famiglia anche se erano stati cresciuti solo dal padre a causa della morte prematura della mamma.

Da allora mio padre convinse mia madre a lasciar venire mio marito a casa almeno in sua presenza. Mia madre aveva mantenuto fede alla sua parola e non lo faceva entrare. Lo cacciava via con la scusa che non si sarebbe sentita libera di andare in bagno, poiché noi avevamo una cucina enorme e in un angolino c’era la porta del “cesso”, non lo si poteva neanche chiamare gabinetto. Invece di andarsene, mio marito aspettava il ritorno di mio padre, che vedendolo lì fuori gli diceva: “Ti ha cacciato? Dai adesso ci parlo io con cibalgina – così chiamava mia madre – le do un po’ di acqua e puina(ricotta N.d.A.) e vedrai che ti fa entrare.” Mi manca il mio papà.

Alla fine nel 1947 mi sono sposata. Avevo diciannove anni, ero minorenne e dovetti avere il permesso dei miei genitori, che firmarono i documenti. Mia mamma non venne al matrimonio. Non era tanto religiosa e disse che doveva restare a casa a preparare la cioccolata per gli invitati. Al momento ero così giovane che mi sembrò normale, poi, ripensandoci, è stato un gran dolore. Il ricevimento non fu nulla di particolare. Non c’erano soldi per andare al ristorante, così disfece la sua camera da letto mettendo i tavoli a ferro di cavallo tutto intorno, preparò le ciambelle col buco e la mattina, mentre noi eravamo in chiesa, fece la cioccolata.

Papà invece sparì poco prima della cerimonia; io non potevo farmi vedere perché ero con l’abito da sposa, ma mio marito mi tranquillizzò dicendo che l’avrebbe trovato lui. Andò in giro a cercarlo con la bicicletta di mio padre, perché allora non c’erano i telefoni. Lo trovò al bar con la Gazzetta dello Sport in mano e le lacrime che cadevano sul giornale. Gli prese la mano esortandolo ad andare con lui per non fare tardi alla cerimonia. Mi raccontò che mio padre l’aveva guardato dicendo: “È la mia condanna”. Io lo vidi arrivare in chiesa ancora con gli occhi rossi per le lacrime.

Lasciami stare mio padre

Sono sempre stata profondamente legata a mio padre e quando non era a casa sentivo molto la sua mancanza. L’ho sempre adorato e anche adesso quando qualcuno prova a dirmi delle cose brutte su di lui, mi rifiuto di ascoltarle. Mia cugina, ad esempio, al telefono spesso comincia con il dire: “però il tuo papà…” io la interrompo subito: “Lascia stare mio padre che non mi ha mai tradito, mi ha voluto bene, mi ha dato tutto l’affetto del mondo. Quando mi sono sposata ha anche pianto in un bar e sono dovuti andare a prenderlo, mentre mia madre è stata a casa a fare la cioccolata, senza neanche venire a messa. Quindi se mio padre ha fatto anche delle cose in giro sono affari suoi, io non voglio saperle.”

Il viaggio di nozze

Dopo il rapido ricevimento, prendemmo un treno per andare in viaggio di nozze a Sanremo a casa di uno dei fratelli di mio marito, già sposato con un bambino piccolo. Era appena finita la guerra e il viaggio fu interminabile; c’erano delle tradotte militari, abbiamo dovuto cambiare tre treni; il primo fino a Verona, neanche quaranta chilometri, dove aspettammo un bel po’ e poi un treno per Genova dove restammo a dormire. Al mattino ripartimmo molto presto. Eravamo con un altro fratello di mio marito anche lui in viaggio di nozze con la moglie. Loro si erano sposati per procura perché lui era militare. Durante il viaggio io continuavo a piangere, volevo tornare dalla mia mamma, volevo andare a casa, mi domandavo cosa ci facessi lì con loro, e mi rattristavo al pensiero di stare lontana da casa tanti giorni. In realtà erano solo otto giorni, ma ero così piccola, a quei tempi a diciannove anni si era ancora bambini, non come adesso. Arrivati in hotel a Genova salimmo in ascensore, dove c’era il ragazzo in livrea e, arrivati al piano, quando mio marito prese la mia e la sua valigia, io impallidii e gli dissi che sarei andata in camera con mia cognata. Lei però era molto più sveglia di me e mi rispose che ognuna di noi sarebbe stata in camera con il proprio marito. Per me fu uno choc e insistetti dicendo che non erano questi gli accordi. Ero proprio una bambina allora! Alla fine, mentre il ragazzo dell’ascensore rideva, seguii mio marito in camera. Lui aveva capito che ero agitatissima, fu bravo, dormì da una parte e io dall’altra. Ci fu un temporale talmente forte che avevo paura dei tuoni e dormii male tutta la notte. Sentivo anche i passi di qualcuno che andava avanti e indietro nel corridoio e pensavo fosse il ragazzo dell’ascensore, che, preoccupato per me, controllava la situazione.

L’indomani arrivammo a Sanremo, ci sistemammo in quattro a casa di mio cognato. Lui era disoccupato, subito dopo la guerra, non aveva una lira in tasca, ma ci ospitò molto carinamente. I due padroni di casa e gli altri due cognati in viaggio di nozze dormirono su dei materassi per terra in sala, mentre a noi lasciarono la camera da letto, in cui c’era anche il piccolo Roberto – pora stella è morto anche lui – allora aveva un anno e stette tranquillo nel suo lettino. Mio marito era timido così anche lì non successe nulla. Aveva 26 – 27 anni, c’erano sette anni di differenza.

Il fattaccio

Durante il viaggio di nozze mio marito mi propose di andare con la teleferica a Monte Bignone – mi pare si chiami così. Portammo la merenda e ci sistemammo su un prato pieno di gente. Ad un certo punto cominciarono lampi e tuoni così tutti presero le loro cose e scapparono giù. Dopo poco iniziò un temporale fortissimo, con la grandine. Noi rimanemmo soli sul prato e lì successe il fattaccio. Non so se ero più spaventata dalla grandine o da lui. Poverino, cercava di tranquillizzarmi dicendomi che era normale perché anche gli uccellini si mettevano insieme per fare i figli, anche le formichine e così via mentre mi accarezzava. Per farla breve il giorno dopo ero già incinta. Appena tornata a casa mia, mia madre mi ha guardato e detto: “sei bella che a posto” e io ho pensato: “ecco ha capito che ho fatto quelle cose brutte”.

Dopo le nozze

Dopo essermi sposata mi trasferii a casa di mio suocero a Mantova. Lui aveva una casa grande, perché aveva avuto nove figli e tutti si erano già sposati. Mio marito era stato l’ultimo a sposarsi ed era contento di avere compagnia. Non è andato d’accordo con nessuna nuora, ma a me ha voluto un bene dell’anima. Forse perché mi vedeva ancora una bambina, avevo solo diciannove anni, ero timida e piccola o meglio mingherlina perché ero alta un metro e 72, ma pesavo solo 47 kg, probabilmente gli facevo tenerezza. Parlava bene di me a tutti: “questa è la nuora che volevo” diceva sempre, molto soddisfatto.

Io ho imparato tanto da lui, aveva capito che non ero una donna di casa, così senza parlare mi insegnava a fare tutto in casa. Aveva anche tante piccole attenzioni per me; accendeva la stufa o il caminetto, la mattina preparava il catino con l’acqua perché mi lavassi le mani e la faccia, poi una volta la settimana, quando ero seduta a lavorare, tirava fuori la roba del buffet, lo puliva e rimetteva tutto dentro. Così piano piano ho imparato come occuparmi della casa.

Dai primi di luglio di ritorno dal viaggio di nozze siamo rimasti con mio suocero fino al giorno di Santa Lucia, in cui mio marito, carabiniere, fu richiamato per le elezioni Repubblica-Monarchia (2 giugno 1946 N.d.A.). Siccome ero già incinta mia mamma mi propose di trasferirmi da lei; era preoccupata di lasciarmi sola in casa con una persona anziana, nel caso fosse successo qualcosa perché avevo già una bella pancia. Ha fatto una bella cosa mia mamma. Così mi trasferii a casa della mamma; a marzo partorii e lei preferì che io rimanessi ancora qualche mese fino a quando allattavo la bambina. Al quarto mese persi il latte e mi incoraggiò a raggiungere mio marito che si era trasferito a Milano.

Il parto

Una mattina mi svegliai tutta bagnata, così un po’ mortificata andai da mia mamma dicendole che avevo fatto la pipì a letto, ma lei mi rispose con un sorriso che mi si erano rotte le acque. Io non sapevo proprio niente a quel tempo. Iniziò a prendersi cura di me, mi preparò il bagno e mi coccolò un po’. All’ora di pranzo mi preparò qualcosa di leggero, le tagliatelle col brodo buono e si raccomandò che non mangiassi nient’altro per evitare di stare male e avere la nausea. Solo verso sera sentii come se mi fosse caduto qualcosa. Lo dissi tutta preoccupata a mia mamma e lei corse a telefonare; non avevamo il telefono a casa per cui andò dal portinaio a chiamare affinché mandassero la lettiga. Andai all’ospedale in lettiga sentendo voci confuse dei vicini che mi chiamavano per nome e mi facevano gli auguri. Arrivata in ospedale non ebbi nessuna contrazione per un bel po’, poi cominciarono insieme a dolori tremendi. Era giovedì santo e passava la processione. C’era una finestra vicina al letto e da lì vedevo delle fiamme enormi; in realtà non c’era neanche una fiamma, ma io vedevo le fiamme che bruciavano la finestra tale era il dolore che provavo. Vicino a me c’erano la mia mamma e la mia nonnina. La mamma, brusca come suo solito, mi diceva di stare zitta, di mordere il lenzuolo per non urlare, “hai voluto sposarti? ti sta bene! l’anno venturo un altro bambino!” Invece la mia nonnina era molto affettuosa, mi accarezzava la guancia, mi baciava e consolava dicendomi che presto tutto sarebbe finito e che era un male che si dimenticava.

Poi arrivarono delle infermiere, mi visitarono e portarono subito in un’altra sala dove ho avuto un parto precipitoso. Non fecero neanche in tempo a schiacciarmi che vroom… uscì, un chilo e nove etti, avevo fatto alla svelta a buttarla fuori. I dolori cominciarono alle dieci e tutto era finito alle 10:20, 10:30. Sentivo che dicevano che era una bambina, una bella bambina, ma per dodici ore non me l’hanno fatta vedere. Mio fratello, Luigino, l’ha vista prima di me; voleva il maschio, ma appena l’ha vista ha detto: “non è un maschio, ma è così bella che va bene così”. Sono stati sempre molto legati lui e la nipote, grandi amici, si sono sempre raccontati tutti i segreti e misteri e ancora adesso si sentono spesso.

Mio marito, che era a Milano, fu avvertito da mia mamma con un telegramma. Poteva avere dei giorni di permesso alla nascita o al battesimo, e preferì venire per il battesimo. A quei tempi negli ospedali c’erano le suore e non si poteva uscire dall’ospedale senza che i figli fossero battezzati, ma ebbi il permesso dal mio parroco che garantì che eravamo dei buoni cristiani. Così mio marito poté venire quando la bambina era già a casa. Mia mamma le fece da madrina.

Conservo ancora tutte le lettere che mio marito ed io ci mandavamo quando era a Milano. Quelle legate con un nastrino azzurro sono le lettere che gli mandavo io, quelle con il nastrino rosa le lettere che mi mandava lui. Entrambe le mie nipoti le vogliono, ma finché sono viva le tengo io in casa, poi vedranno come dividersele. Ogni tanto me le prendono da sopra al mobile e le leggiamo. Sono proprio tenere, eravamo proprio ingenui.

Milano

Il trasferimento

Da Mantova a Milano: il cambiamento

Mio marito era stato assegnato a Sesto San Giovanni, voleva però congedarsi e per farlo doveva trovare un altro lavoro. Aveva fatto la domanda ai vigili, dove in teoria avrebbe avuto la precedenza, essendo carabiniere, ma in quel periodo non assumevano ancora e avrebbe dovuto probabilmente aspettare un anno. Una volta la settimana, andava in divisa alla Falk a chiedere un posto di lavoro per lui. Era un periodo difficile, era appena finita la guerra e nessuno assumeva ancora, benché cominciassero a riprendersi e ci sarebbe stato bisogno di nuovo personale. Ogni settimana parlava sempre con la stessa signora, già anziana, quasi pronta per la pensione, che un po’ gli si era affezionata; così una volta gli disse: “Senta, ma lei vuole proprio venire qua?” “No” rispose mio marito, “io cerco un lavoro per portare mia moglie e mia figlia a Milano”. Allora gli disse che il marito di una carissima amica aveva una piccola ditta e cercava personale, gli garantì che erano persone molto serie e che la ditta sicuramente si sarebbe ingrandita. Appena mio marito si presentò all’indirizzo fornitogli dalla signora lo assunsero come guardia giurata per la sua esperienza come carabiniere, anche se poi ha imparato il mestiere e fatto carriera fino a diventare capo reparto. Si trattava di un’industria del freddo: serpentine, cose per frigoriferi, congelatori, lavatrici; diventò una ditta importante. Lo assunsero poco prima di Ferragosto; durante le feste tornò a Mantova per una settimana, mi raccontò le novità e promise di trovare casa al più presto, in modo che potessi trasferirmi anch’io con la bambina.

Anche la ricerca della casa fu difficile a causa del periodo storico, Milano era ancora parzialmente distrutta. All’inizio trovò un piccolo appartamento in subaffitto da una signora molto anziana. A quel tempo mi sembrava molto anziana, in realtà aveva 80 anni, io ora ne ho 90 e non mi sento tanto anziana, o meglio non voglio ammetterlo, finché ho il cervello che va… Certo traballo, non ci vedo, dei problemi dell’età ce li ho, ma vado avanti. Comunque questa signora fu molto carina. Trascorreva tutto il giorno da una nipote nella casa accanto, per cui io restavo sola fino a sera. All’inizio non portai la bambina con me, la lasciai a mia madre, perché volevo abituarmi. Era mia mamma a fare tutto per la bambina, io stavo lì a guardare, non ero capace, avevo paura a girarla e rigirarla, era così piccola. Poi dopo una decina di giorni andai a prenderla e la portai a Milano.

Milano e la solitudine

All’inizio mi sono sentita molto sola a Milano, anche perché ero giovane e inesperta. Avevo solo vent’anni. Ho anche avuto molti disagi, a quell’epoca c’erano le carte annonarie per il pane e per tutto. Io non conoscevo la città e i posti in cui bisognava andare a timbrare, inoltre dovevo andare ovunque con la piccolina in braccio, ero un po’ in difficoltà, anche se lei per fortuna era molto tranquilla. Poi, con il tempo, mi sono ambientata e ho anche ripreso il mio lavoro di sarta in casa e ho cominciato a conoscere delle persone.

In questa casa in subaffittosiamo stati da settembre fino a marzo. Poi ce ne siamo dovuti andare perché in via Ippolito Nievo, dopo poco ci sarebbe stata la Fiera Campionaria e i prezzi sarebbero aumentati molto. La signora era contenta di noi e ci aveva proposto di tornare dopo la Fiera, ma nel frattempo, tramite le conoscenze di mio marito, abbiamo trovato un’altra sistemazione.

Ibo buchita

Il ragioniere della ditta dove lavorava mio marito era stato da poco lasciato dalla moglie, che era scappata con il suo superiore, trasferitosi a Roma. Era stato molto traumatico per lui, tanto che aveva comprato una pistola, ma era una brava persona. Quando ha saputo della nostra situazione ci ha offerto una stanza a casa sua, anche per non essere solo tutto il tempo. Mio marito, la bambina ed io ci siano sistemati in questo piccolo abbaino in via Bartolomeo d’Alviano. Dovevamo abbassarci per entrare e avevamo i materassi per terra, ma abbiamo accettato subito, eravamo noi tre insieme, non si spendeva molto, toccavamo il cielo con un dito. Lì la bambina ha cominciato a camminare e ha scritto su tutti i muri. Andava in giro dicendo “Ibo buchita, ibo buchita” ovvero libro matita, libro matita, ma benché avesse il libro in mano, saliva sulla poltrona e scriveva sui muri. Prima di andar via abbiamo dovuto fare imbiancare tutto.

In seguito il datore di lavoro di mio marito ci ha dato un alloggio molto piccolo, in Bovisa, vicino a Piazza Nigra, dove siamo rimasti un paio d’anni, poi ci hanno offerto di aggiungere un altro locale all’appartamento e abbiamo vissuto lì ancora undici anni finché abbiamo preso una casa più grande con un bellissimo terrazzo in via Catone, sempre nella stessa zona. La bambina cresceva e mi stavo ambientando anche grazie all’aiuto di una signora friulana che abitava nello stesso stabile. É stata molto carina, aveva parecchi anni più di me e mi ha insegnato e aiutato tanto, proprio come si fa con una figlia.

Con tutti i vicini ho avuto un ottimo rapporto, sono stati sempre disponibili ad aiutarmi, anche con la bambina. Mi davano consigli e mi facilitavano quando lavoravo e non potevo uscire a portarla prima all’asilo e poi alle elementari. Sono stati tutti molto gentili.

Le sorelle Bertoni

Inoltre le sorelle Bertoni, da cui avevo imparato il mestiere di sarta, quando erano sulla trentina, si licenziarono per lavorare in proprio, poiché una di loro si sposò e trasferì a Milano. Con lei ci vedevamo spesso, io la aiutavo se aveva tanto lavoro e lei mi dava consigli quando dovevo fare qualche abito particolare. Non si finisce mai di imparare in sartoria. Viveva in Corso Buenos Aires ed è sempre stata molto disponibile con me. Quando è rimasta vedova è andata ad abitare fuori Milano dalla figlia Roberta, e dopo qualche anno è morta di tumore ai polmoni, come il marito e la sorella; tutti e tre fumavano tanto.

Le asole con la virgoletta

Finché ha abitato a Milano ha continuato ad insegnarmi fino a che sono maturata completamente. Allora si faceva tutto a mano, non come adesso che è solo taglia e cuci, le maniche sono dritte, tutto è semplificato, allora si lavorava il seno con la punta del ferro, le maniche avevano una sola cucitura e poi si giravano col ferro. Facevo anche le asole con la virgoletta, da professionista; mi sono rovinata gli occhi anche facendo quelle, perché è un lavoro di precisione. La macchina da cucire si usava pochissimo, anche le rifiniture sul filo si facevano a mano. Prima che comprassi la macchina e facessi le rifiniture con lo zig zag è passato qualche anno, non volevo accettarlo, volevo la perfezione con le mani e la pretendevo anche dalle ragazze che mi aiutavano. Tutti questi lavori di perfezione con aghi sottilissimi mi hanno fatto sforzare molto gli occhi.

Amavo tanto fare abiti da sposa e da sera benché abbia lavorato in tutti i reparti in sartoria. Feci anche un corso da modellista, ma poiché non mi piaceva fare i cartamodelli, lo insegnai a mio marito. Era un perfezionista, in anticamera tra una porta e l’altra avevamo appeso una carta millimetrata che occupava tutta la parete e lui la usava per fare i cartamodelli che gli chiedevo. Avevo già qualche problema agli occhi e avevo difficoltà con i piccoli quadretti della carta millimetrata, mi girava un po’ la testa se dovevo lavorarci, invece a lui piaceva. Il sabato e la domenica mi preparava i cartamodelli per tutta la settimana.

Madrina della gara

Mentre lavorava come daziere mio padre era stato anche nominato dirigente della società ciclistica del Mantova, Learco Guerra. Veniva spesso a Milano e ci vedevamo sempre. Ricordo quando veniva per la Sei Giorni (gara ciclistica N.d.A.), mi voleva sempre con lui a cena al tavolo d’onore e mi presentava a tutti con orgoglio. Quando andava in giro per le gare cercava, quando possibile, di portarmi con sé. Tante volte mi chiedeva di fare la madrina della corsa, a me non piaceva, mi faceva un po’ schifo, bisognava consegnare un mazzo di fiori ai vincitori e baciarli sulle guance, ma puzzavano terribilmente di pipì, di sudore, avevano un odore nauseante. Gli dicevo: “no papà, non me li far baciare”, ma non si poteva. Cercavo di evitare di baciarli proprio sulle guance, come faccio sempre con tutti, ma loro ci tenevano al contatto sulla guancia. Era un po’ una sofferenza per me. Per fortuna la figlia di Learco Guerra, Carla, faceva volentieri la madrina delle corse; eravamo molto amiche, aveva più o meno la mia età, un anno meno. Però quando non c’era lei, papà mi diceva: “non c’è la Carla, vieni tu, non voglio nessun’altra”. Non volevo dirgli di no e così lo facevo. Qualche volta mi ha portato anche alla Parigi-Roubaix, la Liegi-Bastogne-Liegi e il Giro delle Fiandre, finché mia figlia non ha cominciato ad andare a scuola o nei periodi festivi in cui potevo lasciarla alla mamma. Mi faceva andare sull’ammiraglia mettendomi la coccarda di giornalista, altrimenti non sarei potuta salire sull’ammiraglia. Sono bei ricordi.

Fino ai trenta anni l’ho accompagnato, poi si è sposato mio fratello Luigi, il più giovane e allora la mamma poteva viaggiare e ha cominciato ad andare con lui. Finché ha avuto il figlio in casa non ha mai accettato di lasciarlo solo e accompagnare papà.

Lo so che non ho mai agito bene con te

Mia mamma è sempre stata piuttosto rigida, ma con Luigi è stata molto amorevole. Era il figlio desiderato e con lui ha avuto un atteggiamento molto diverso. Gli è stato concesso tutto ed era il più vivace, quello che ha fatto più tribolare. Benché ne combinasse di tutti i colori lei non lo rimproverava mai, anzi lo difendeva sempre anche con gli insegnanti. Con noi invece era severissima e poco affettuosa, era così, con il tempo me sono resa conto sempre di più. Anche con mio marito non è mai stata tenera e non l’ha accettato neanche dopo il matrimonio. Nessuno sarebbe andato bene, era il suo modo di fare. Due anni prima di morire quando era allettata mi disse di lasciarla sola con mio marito poiché voleva parlargli. Mio marito mi riferì che gli aveva detto: “lo so che non ho mai agito bene con te, però sappi che ti ho voluto bene lo stesso e ti ringrazio di come hai allevato mia nipote e come hai tenuto mia figlia. Io sono fatta così, ma ti ringrazio per tutto quello che hai fatto. Adesso puoi anche chiamare tua moglie”.

Con mia mamma è stato sempre un rapporto difficile, non mi ha mai dimostrato affetto, anche quando era ricoverata se c’erano persone vicino mi accarezzava la testa, se eravamo sole e io mi avvicinavo per darle un bacio si scostava. Era fatta così, ma mi faceva stare male.

La vita in questa casa

La ditta Contardo

Poco dopo l’assunzione di mio marito come guardia giurata presso la ditta Contardo il titolare, da cui prendeva nome la ditta, prese in simpatia mio marito aiutandolo a fare carriera. Il signor Contardo andava personalmente una volta alla settimana in Porta Ticinese da un amico falegname per fare gli imballi della merce. Questo lavoro richiedeva molto tempo e, avendo molti impegni, propose a mio marito di spiegargli l’attività cosicché sarebbe potuto andare lui al suo posto. Così mio marito ha imparato e perfezionato i disegni che usavano; ancora adesso gli imballi vengono progettati sulla base dei suoi disegni. Questo è stato il primo incarico poi, piano piano, è diventato capo reparto; la ditta si è ingrandita molto ed è passata al figlio del proprietario. Quando mio marito è stato assunto c’erano diciassette, diciotto impiegati poi sono diventati 1500 e si sono trasferiti a Uboldo vicino Saronno. Mio marito era forse responsabile del reparto più grosso ed ha lavorato lì fino alla pensione. Ha smesso di andare poco dopo il trasferimento perché era stanco di doversi alzare presto la mattina a causa del traffico sul ponte della Ghisolfa in direzione Saronno. Dopo ho saputo che i proprietari hanno venduto la ditta.

La casa di proprietà

Quando abbiamo fatto domanda per questi appartamenti, avevano detto che entro un anno sarebbero stati pronti, avremmo dovuto fare un mutuo, ma eravamo giovani ed avremmo avuto una casa nostra. Invece li hanno venduti dopo vent’anni. Mio marito ormai era andato in pensione per cui abbiamo potuto comprarlo con la liquidazione e abitiamo qui da cinquanta anni. Ora sono vedova, mio marito si è ammalato ed ha passato undici anni in una casa di cura. Aveva l’Alzheimer, la demenza senile e il Parkinson, non era più possibile tenerlo a casa.

Quando ci siamo trasferiti il quartiere era diverso, le torri sono state costruite in un secondo momento, all’origine c’erano solo le case più basse. All’inizio vicino al supermercato Bonola, dove ci sono ora i giardinetti, era tutto prato e c’erano le pecore. Sembrava di essere in campagna e mi piaceva molto quando uscivo con la bambina, in realtà era ormai grande mia figlia, ci piaceva vedere le pecore che pascolavano, era molto bello.

All’arrivo in questa casa abbiamo subito conosciuto i vicini perché ci siamo trasferiti tutti insieme. Il primo giorno eravamo tutti in coda e la mia attuale vicina, indicando noi due, disse al marito – che allora era ancora il fidanzato: “Quelle due persone mi piacciono, vediamo dove vanno e prendiamo la casa al loro stesso piano”. Così dopo il viaggio di nozze sono venuti ad abitare nell’appartamento di fronte a noi e abbiamo costruito un bellissimo rapporto. Quando lei ha ripreso a lavorare con i bambini piccoli, li lasciava qui con la carrozzina. Ancora ora ha le chiavi di casa mia in caso di necessità e non manca giorno che non passi a salutare e porti qualcosa di cucinato, me lo offre in un modo garbato, si capisce che ci tiene, non mi vuole certo offendere, è tanto cara. Anche gli altri vicini mi conoscono e mi vogliono bene, è come se avessi delle figlie sul piano. Sto proprio bene in questo posto. Ci conosciamo da cinquanta anni e c’è sempre stato rispetto reciproco, io rispetto loro e loro rispettano me. Devo dire che fanno così tanto per me, dove posso contraccambio, anche se ora posso fare davvero poco.

La boutique

Quando mi sono trasferita in questa casa il lavoro è diminuito perché tante persone non se la sentivano più di venire a causa del nebbione. In quel periodo non solo lavoravo di meno, ma dopo 40 giorni dal trasferimento, si è sposata mia figlia e perdere l’unica figlia è stato un dolore immenso. Ero sempre in lacrime. Per fortuna il datore di lavoro di mio marito, che noi conoscevamo da ragazzino perché quando il padre ha assunto mio marito ci ha anche dato l’appartamentino sotto di lui, sapendo che non stavo lavorando tanto e che ero triste per la mancanza di mia figlia, propose a mio marito un lavoro per me. Lui era amico di Francesco Conti, famoso per le palestre chic di Milano, e insieme volevano aprire una boutique, lui sarebbe stato il finanziatore e gli avrebbe fatto piacere se io avessi lavorato nel negozio. Mio marito era perplesso, ma io accettai subito anche perché, benché fossero tredici ore al giorno, sarebbe stato solo tre giorni alla settimana e gli altri giorni avrei potuto tenere la clientela rimasta.

Ogni punto una lacrima

Ho fatto io l’abito da sposa di mia figlia, ma è stata una gran sofferenza, non l’avrei più fatto se avessi avuto altre figlie. É venuto molto bene, l’ha scelto con l’aiuto dei miei consigli: un abitino semplice in stile impero con appena quarantacinque centimetri di strascico, un mantello stupendo con il cappuccio e un visone intorno al cappuccio perché era gennaio e faceva freddo. Era molto bello, ma ho versato una lacrima per ogni punto, è stato un grave errore, troppo doloroso.

In generale mi piaceva molto fare gli abiti da sposa e da sera, il più bello era sempre l’ultimo, mi piacevano tutti. Le clienti sceglievano e io dovevo dare loro un consiglio perché se una persona era bassa e tozza non potevo permettere che scegliesse sul mannequin, dovevo aiutarla a scegliere il meglio per lei.

Cercavo la semplicità, cose che non ingolfavano troppo, molto lineari, magari con degli spacchi; alcune volevano degli spacchi vertiginosi, ma io consigliavo di non esagerare, li facevo un po’ più corti, se poi non andavano bene li allungavo. Spesso chiedevano anche profonde scollature, magari dietro, molto belle per chi non aveva tanto seno e non aveva necessità del reggiseno, per le altre ci si fermava all’altezza del reggiseno.

Crociera

In quel periodo ho fatto un bellissimo viaggio per il trentesimo anniversario di matrimonio, siamo andati in crociera per la prima volta. Mio marito è stato sempre molto disponibile con me, mi ha chiesto di scegliere cosa volessi per festeggiare. Io non avevo molte idee, poi ne parlai nella boutique e alcune clienti mi consigliarono di andare in crociera, assicurandomi che sarebbe stata la vacanza più bella della vita. Avevano ragione, mi dissero di andare con una nave russa di lusso e fu bellissimo. Andammo fino in Russia, quattordici giorni favolosi. Mio marito mi accontentava in tutto, mi portava dappertutto. Al mattino mi faceva alzare alle sei per vedere il sorgere del sole e lo stretto dei Dardanelli: una cosa unica, stupenda, così la ricordo. Siamo andati altre volte in crociera, ma non è più stato così bello. Forse perché era la prima volta o anche perché abbiamo trovato una compagnia di ragazzi in viaggio di nozze molto piacevoli. Ci hanno coinvolto loro benché fossimo molto più grandi. Ci siamo divertiti moltissimo, tutte le sere si organizzavano dei giochi e noi vincevamo quasi sempre. Si vincevano la vodka, le sigarette, cose così, poi si andava in piscina a bere il liquore e a fumare. Goccio dopo goccio si chiacchierava, si faceva un bagno in piscina, poi andavamo in discoteca fino al mattino, non abbiamo mai dormito, ma non sentivamo la stanchezza, era troppo divertente. Di giorno avevamo la forza di fare le escursioni, prima siamo stati ad Istanbul e mi sono innamorata della città, soprattutto i mercatini, mi piaceva l’atmosfera, tutta quella gente, la confusione. Mio marito invece non li amava, era molto preoccupato, aveva paura di perdermi, cercava di trattenermi, ma io lo trascinavo nella folla a vedere tutto. Poi in Russia abbiamo visto tante cose, mi ricordo il tavolo dei grandi, non si poteva entrare nella stanza, ma si vedeva da fuori, stupendo, tutto sistemato come quando si incontravano lì. Abbiamo visto il più grande brillante del mondo a Topkapi. Tante belle cose.

Il comandante della nave ci ha fatto la festa per l’anniversario, una bella festa da ballo, noi seduti al tavolo col comandante in divisa ufficiale, le sue damigelle elegantissime e belle, una più dell’altra, giovani e di grande stile, coi tacchi altissimi, vertiginosi. Hanno offerto champagne, è stata una bellissima serata, un grande intrattenimento. Ogni sera si indossava un abito diverso, io avevo portato tanti bei vestiti, mio marito aveva l’abito blu con la camicia bianca.

Il lavoro di una vita

Quando mio marito ha deciso di lasciare la ditta era ancora giovane e il signor Contardo gli ha offerto di continuare a lavorare per lui. Così ha lavorato altri 10-15 anni fino a quando proprio non ce la faceva più per la malattia, anche perché si trattava di viaggiare molto. I Contardo avevano dei possedimenti a Ischia, in Francia, in Spagna, in Germania e mio marito si recava sul posto a fare i sopralluoghi, definire le modifiche, chiamare le imprese e controllare i lavori. In alcune proprietà c’era anche il giardino o la vigna e si occupava di farli sistemare, vendemmiare, tutto il necessario. Spesso i lavori richiedevano molto tempo per cui si doveva trasferire lì e voleva che andassi anch’io; ho dovuto abbandonare il mio lavoro, che mi piaceva tanto, per seguirlo. Non avrebbe accettato l’incarico se non l’avessi accompagnato e nel complesso era anche piacevole. Alloggiavamo nei loro appartamenti, per esempio a Livigno c’erano dieci, dodici appartamenti, noi andavamo in quello appena ristrutturato e mio marito seguiva i lavori degli altri. Potevamo anche far venire la famiglia, gli amici ed era divertente. In alcuni posti i contadini ci portavano la verdura e altre cose fresche, ad Ischia c’era una villa stupenda con la piscina e il campo da tennis. I proprietari ci sono andati solo una volta, l’anno in cui hanno invitato anche noi poi non sono mai più andati. Le figlie avevano voluto la piscina e il campo da tennis, avevano trascorso 20 giorni ripetendo in continuazione “che bello, che bello!” poi non ci hanno mai più messo piede. La villa ad Ischia era bellissima, c’era un panorama stupendo, in uno dei più bei posti di Ischia, da cui si dominava tutto: Lacco Ameno, Casamicciola, Forìo, tutto si dominava da quella villa.

Poi siamo andati anche in Francia, ospiti della famiglia Contardo, in una villa molto grande dove avevano fatto delle modifiche.

Il pollo con le bolle

Un giorno mentre eravamo in Francia la signora doveva andare a fare shopping con i figli, mio marito era in giro per lavoro ed io ero da sola a casa. Prima di uscire la signora mi chiese se potevo cucinare il pollo che era in frigo. Mi spiegò dove trovare l’occorrente e se ne andò. Misi il pollo sul fuoco aggiungendo olio e sale, ma dopo un po’ mi accorsi che faceva delle bollicine, lo guardai perplessa e mi domandai come fosse possibile che il pollo francese facesse le bolle, mi sembrava molto strano, ma continuai a cuocerlo, controllando la cottura più volte. Ogni volta che lo giravo si creavano sempre più bolle. A cottura ultimata era tutto una bolla. Quando la signora tornò le raccontai del pollo che faceva le bollicine. Appena glielo dissi si ricordò che aveva usato delle bottiglie dell’olio vuote per travasare il detersivo per lavare i piatti. Si svelò dunque il mistero.

Quella sera aveva ospiti a cena, ma per fortuna in quattro e quattr’otto preparò una frittata e si risolse tutto. Finita la cena mentre la signora serviva il caffè e parlava in francese mi accorsi che tutti mi guardavano e ridevano molto divertiti. Io potevo capire il francese se parlato piano, in quell’occasione non capii ma mi misi a ridere anche io, per poi scoprire che gli aveva raccontato che avevo cotto il pollo con il detersivo dei piatti. Eh va beh insomma nulla di grave, un po’ d’allegria.

Casa in Montagna

Quando mio marito è andato in pensione abbiamo preso un appartamentino in montagna, che lui amava, io adoravo il mare, però mi accontentai. In realtà speravo mi portasse anche un po’ al mare, invece per diciassette anni non l’ho mai visto, ma abbiamo trascorso dei bei momenti. Avevamo una bella compagnia con tutti i nostri vicini e ci siamo divertiti molto. Al nostro stesso piano c’era un medico sposato con una professoressa di lettere cremonese, per cui eravamo primi cugini diciamo, al piano di sopra c’era un farmacista, simpaticissimo, poi un industriale; tutta gente che veniva per divertirsi. Gli uomini andavano tutte le mattine a raccogliere la legna, la trasportavano e la tagliavano, poi preparavano il fuoco e si cucinava tutti insieme. C’era chi raccontava barzellette, i bambini giocavano a ping pong, perché c’era un grande appezzamento di terreno davanti alla casetta. Era una piccola casetta di due piani. Noi donne avevamo sempre qualcosa da fare. Spesso venivano con noi anche i miei genitori e le mie nipoti. Anche per loro è stato bello, hanno imparato a sciare e fatto molte amicizie. Poi quando sono cresciute hanno preferito andare con gli scout e altri amici. Nel frattempo siamo diventati un po’ meno giovani e così ho proposto a mio marito di vendere la casa e magari comprarne una a Milano, dove eravamo ancora in affitto. Lui era contrario, anzi voleva andare ad abitare in montagna. Per me era una follia perché con gli anni che passavano il pensiero di essere in un posto molto isolato mi preoccupava. Inoltre non ho mai imparato a guidare e se si fosse ammalato non avrei saputo cosa fare, l’ospedale più vicino era a Clusone, a tre quarti d’ora, era troppo lontano. Alla fine l’ho convinto.

Con i soldi della vendita e la liquidazione abbiamo comprato questa casa e da allora abbiamo cominciato ad andare al mare, in Italia, ma anche all’estero, abbiamo fatto delle vacanze bellissime, finché lui è stato bene poi…è cambiato tutto, velocemente, quella malattia galoppa.

Circolo ambrosiano meneghin e cecca

Gli eventi del circolo

Finché mio marito ha lavorato, abbiamo avuto molti conoscenti che ci hanno aiutato, ma amici veri non ne avevamo. Lui andava via al mattino molto presto e al ritorno la sera, cenava e andava a letto. Non uscivamo mai, era stanco e spesso lavorava anche il sabato e qualche volta la domenica mattina. Nel complesso a me non pesava anche perché avevamo bisogno di soldini.

Poi ci siamo iscritti al circolo ambrosiano meneghin e cecca. In realtà all’inizio mi sono iscritta io, ci tenevo ad andare perché il mercoledì pomeriggio c’era il salotto delle Zabette con Maria Pia Arcangeli, una poetessa del vernacolo. Venivano molti attori e cantanti che recitavano in dialetto e cantavano le canzoni dialettali, Nino Rossi e molti altri di quell’epoca – adesso sono quasi tutti, anzi tutti morti perché erano assai più anziani di me. Per un po’ ho frequentato il circolo per assistere agli spettacoli e i seminari che organizzavano. Poi hanno saputo che facevo la sarta e mi hanno chiesto aiuto per un nuovo progetto che riguardava le sfilate con gli abiti degli Sforza. Erano gli abiti originali lasciati in dotazione alla Scala dove però non c’era più spazio per conservarli ed erano stati dati al circolo, che aveva un ampio locale con grandi armadi perfetti per custodirli. Ad ogni sfilata bisognava controllare che non ci fossero delle macchie, che le rifiniture fossero a posto e cose del genere, un lavoro poco impegnativo. Erano abiti molto voluminosi e preziosi che non si potevano portare a casa per sistemarli con calma, bisognava farlo sul posto, per cui mi avevano chiesto di andare il martedì sera a seguire questo lavoro. Io ero un po’ perplessa, a quei tempi non era pericoloso, ma neanche frequente che una donna andasse in giro da sola la sera, mi sentivo un po’ disagio a tornare alle 11:30 o mezzanotte. Avrei gradito che mio marito mi accompagnasse, ma lui non era portato per queste cose. Non aveva avuto nulla da ridire, così per due o tre mesi ero andata ad aiutarli, poi non me la sono più sentita e non mi sono più iscritta al circolo. In quei primi mesi ero stata affiancata da due o tre amiche che avevano imparato un po’ di cose e pensavo che se la sarebbero cavate anche da sole.

Questo è il regalo che ti faccio

Mio marito non ha commentato la notizia, poi una sera, tornato a casa, sventolò un bigliettino e tutto orgoglioso mi disse: “Questo è il regalo che ti faccio”: era andato ad iscriversi al circolo. Avrebbe potuto fare l’iscrizione di nuovo a nome mio, ma invece non potendo accettare che fossi io la socia e lui ad accompagnarmi, l’aveva fatta a nome suo. Sono stata contenta, so che l’ha fatto perché ricominciassi ad andare in sua compagnia. Da allora mi accompagnava tutti i martedì, lui andava al bar, beveva un caffè e si addormentava mentre io lavoravo con le altre. Tutti quelli che passavano al bar, venivano da me ad informarmi che si era addormentato e che russava, ma io rispondevo seraficamente che non potevo farci nulla. Quando finivamo andavo a svegliarlo e tornavamo a casa. Con il tempo ha cominciato ad inserirsi anche lui. Ha iniziato a conoscere gente e dopo poco ha proposto e curato vari progetti. Uno di questi riguardava i vecchi mestieri. Abbiamo ricreato una trentina di personaggi tipici della tradizione milanese vestiti con abiti che avevo confezionato io; lui ha voluto fare el ciaparatt(l’accalappia ratti) – in cantina ho ancora la gabbia col topo finto – vestito da straccivendolo, lo sporcavo tutto e lui era molto soddisfatto; da qualche parte ho anche un libro con la sua fotografia. Tra gli altri mestieri c’era el lattee(il lattaio), el ranatt(il venditore di rane), io facevo la modista insieme a mia nipote, la piccolina, poi c’era la fioraia col cesto di fiori, el spazzacamin(lo spazzacamino), el pessee(il pescivendolo), il lustrascarpe, c’erano proprio tutti i mestieri di una volta. Un signore organizzava le uscite ed eravamo pagati, ma molto poco; i soldi andavano in un fondo cassa che serviva per comprare gli accessori, tipo i fiori per la fioraia, i pesci, le rane e così via. All’inizio venivamo accompagnati da un fisarmonicista, poi abbiamo fatto l’abbinamento col Ciao Milan, un coro che cantava canzoni in milanese.

Gli Sforza

Dopo abbiamo cominciato anche le uscite con gli abiti degli Sforza. Era stato proposto a mio marito di organizzare perché era molto bravo – aveva un gran cervello mio marito non si meritava quella malattia lì, non se la meritava proprio – all’inizio uscivamo noi con i costumi degli Sforza; io, ad esempio, ero la regina, la maggiore delle mie nipoti la principessa, la più piccolina il paggetto. Eravamo tanti, un centinaio, gli abiti erano più di cento. Ci organizzavano anche dei servizi fotografici e talvolta televisivi. Per lui era diventato un lavoro, prendeva i contatti o veniva contattato, era sempre al telefono, sempre impegnato. Avvertiva il gruppo e il giorno stesso andavamo a prepararci al circolo e partivamo tutti insieme. Ci si organizzava con le macchine o noleggiando un pullman, a seconda del numero e della destinazione. Alcune volte prendevamo semplicemente i mezzi pubblici, riempivamo un tram intero con i nostri vestiti voluminosi, ci guardavano tutti. É stato un periodo bellissimo. Andavamo nei paesi, ma anche a Milano. Il giorno dell’Epifania si cominciava da piazza Duomo e si andava in giro, alle Colonne di San Lorenzo e così via. Faceva un freddo bestiale con quei vestiti, ma ci offrivano sempre qualcosa di caldo o la merenda. È stato un periodo molto simpatico, veramente bello. Con il tempo alcune persone più giovani si interessavano a noi e così gradualmente, uno alla volta, per impegni, stanchezza o altro abbiamo lasciato il posto a questi giovani volenterosi che potevano continuare la nostra attività. Mio marito, però, era sempre quello che organizzava le uscite e tutto il resto.

Eravamo tutti amici, ci incontravamo quasi tutte le sere al circolo ambrosiano, mio marito ed io facevamo parte di tutti i gruppi: il gruppo dei donatori di sangue, quello più importante dell’istituto dei tumori, il gruppo dei marinai, il gruppo dell’aeronautica; ogni sera c’era un evento, si organizzavano conferenze, balli, concerti, venivano medici, intellettuali, cantanti. Ci si divertiva e ci si istruiva anche; il professor Veronesi veniva spesso a tenere conferenze. É stato un bel periodo, quando eravamo in pochi eravamo 60, 70 persone.

Le cose belle iniziano e finiscono, i tempi cambiano

Poi mio marito ha avuto l’incidente d’auto che lo ha allettato per due anni, nessuno si è sentito di sostituirlo e tutto è finito. Tutti lo incoraggiavano a riprendersi presto per ricominciare, ma io sapevo che non sarebbe stato più in grado. Avevo capito che era l’inizio di un altro periodo, purtroppo molto triste e lungo. È cominciata anche la malattia ed è andata piano piano peggiorando. È così, le cose belle iniziano e finiscono, i tempi cambiano.

Il ballo

Abbiamo ballato, fino all’ultimo abbiamo ballato

Andavamo spesso a ballare. Inizialmente mio marito sapeva ballare un pochino, mentre io per niente, poi siamo diventati due ballerini, abbiamo ballato, fino all’ultimo abbiamo ballato. All’inizio una coppia di amici si è offerta di insegnarci a ballare, lei aiutava mio marito e suo marito insegnava a me, poi lui si è ammalato e allora il marito di un’altra amica si è offerto di aiutarmi. Era piuttosto piccolino mentre io sono sempre stata alta e a quel tempo portavo i tacchi di undici centimetri. Lui era un metro e neanche 60 centimetri, per cui quando ballavamo io avevo fuori praticamente tutto il busto, mi sentivo a disagio, qualche volta tiravo giù il braccio perché era strano tenerlo sulla sua spalla così bassa. Lui mi rimproverava e mi sollevava il braccio, una comica! Nonostante ciò mi ha insegnato molto, in particolare i quattro tempi che ballavano solo a Milano. Durante il ballo la musica cambia quattro volte e bisogna cambiare passo con continuità, non è per niente facile. Mio marito l’ha imparato prima di me, io ho avuto un po’ di difficoltà, ci riuscivo fino ad un certo punto, poi, immancabilmente, sbagliavo nello stesso punto e mio marito borbottava: “Come sei imbranata, guarda che figura che fai, inciampi e intralci anche me”; però, ci ridevamo su, era divertente. Ci avevamo preso gusto e andavamo a ballare dappertutto, anche di sera, in un locale in via Procaccini – non ricordo più i nomi dei posti – al Lido qui vicino, poi abbiamo cominciato ad andare alla Porta del cuore (un centro ricreativo per anziani nel comune di Milano N.d.A.), vicino ai custodi sociali. Ci saremo andati almeno per vent’anni, i primi dieci mio marito guidava ancora e andavamo di sera. Poi l’hanno anticipato al pomeriggio il mercoledì e il sabato poiché eravamo tutti più anziani e c’erano tante donne sole che non uscivano più la sera. Noi andavamo solo il sabato. Anche quello è stato un periodo bellissimo, con cene e balli.

Mi è sempre piaciuto molto ballare, mi scatenavo e spesso mio marito cercava di trattenermi. Ballavo il liscio solo con mio marito, provavano a chiedermi di ballare una volta o due, poi capivano e non me lo chiedevano più. Quando andavamo nei villaggi, poteva capitare che qualcuno degli animatori mi chiedesse di ballare il liscio, allora andavo perché erano ragazzi giovani e io ero già nonna. Mio marito non borbottava, ma capivo che ci soffriva, ci guardava attentamente per tutto il tempo.

Nei villaggi vacanza ho anche cominciato ad imparare la salsa, il merengue e tutti i balli caraibici che si ballavano in gruppo. I balli di coppia latino americani invece non li ho mai imparati perché lui assolutamente non ne voleva sapere, mi guardava un po’ con compassione come dire “guarda sta poveretta…”

Ho fatto anche dei corsi di balli di gruppo alla Porta del cuore e dopo tre settimane nei villaggi vacanza mi ero perfezionata. Quando alla Porta del cuore partivano questi balli, lui mi teneva per una mano, mi frenava dicendomi: “ma ancora? basta!” e mi tirava, io scappavo ridendo; ridevano tutti di questa scena tipica, rideva anche lui e diceva “guarda questa forsennata che non si ferma mai”. Io ballavo tre ore senza sedermi un secondo.

Tenetemi stretta

Per un po’ di tempo sono anche andata da sola dove andavo con mio marito a ballare. Sono stata tanto tempo senza uscire quando mio marito è stato ricoverato, poi un giorno mi ha telefonato la direttrice del locale dove si ballava insistendo perché andassi anche solo ad ascoltare la musica, vedere degli amici, passare almeno il sabato pomeriggio in compagnia. Così per un po’ andai, spesso mi accompagnava mio cognato in macchina, poi quando le gambe non mi reggevano più, mi sono fermata e ho cominciato ad andare dai custodi sociali.

Ancora adesso quando capita qualche festicciola dai custodi sociali, siccome sanno che mi piace ballare, mi fan fare un ballettino, io dico: “tenetemi stretta perché altrimenti cadiamo in due”. Mi invitano per compassione però mi fa piacere, sono contenta. Quando torno a casa e mi telefona mia figlia glielo racconto: “Mi han fatto fare tre balli”, “non sei caduta?” “No, non siamo caduti” e ridiamo tutte e due.

Mio fratello Luigino

Luigino il birichino

Il mio fratellino è stato birichino persino da adulto. Durante il matrimonio dopo la nascita della figlia Stefania ne combinò una grossa per cui mia cognata fece fagotto e se ne tornò dai suoi genitori a Mantova. Lo lasciò solo e lui venne qua da noi per alcuni anni. In realtà tra un pasticcio e l’altro è stato quasi sempre a casa mia. Poi abbiamo avuto dei problemi ad ospitarlo in casa perché ci era stata assegnata dal Comune, lui si è trasferito a Mantova a casa di mia mamma, la quale dopo otto giorni, ha chiamato la nuora e le ha fatto un bel discorso: “io e mio marito siamo anziani non vogliamo più figli in casa, inoltre avete una figlia, fate la pace, lui ha sbagliato, ma tu lo devi perdonare”. All’inizio lei non voleva sentire ragioni, poi per la bambina gli disse di tornare in casa. Vivevano separati in casa ma lui accettò anche perché non sapeva più da chi andare. Alla fine comunque è stato un bellissimo matrimonio, quando lei si ammalò lui chiese un permesso nella ditta dove lavorava ed è stato con lei sei mesi finché non è morta. L’ha accudita giorno e notte, non l’ha tradita più, almeno in quel periodo.

Anche per il lavoro fu un po’ in difficoltà, mio marito lo aiutò facendolo assumere nel suo reparto. Disse a tutti i suoi dipendenti e colleghi: “qua dentro quello non è mio cognato, è un dipendente, qualsiasi cosa succeda lo dovete dire a me, non andate a spettegolare in giro”. Invece mio fratello si è sempre comportato bene, ha imparato il mestiere e, forse, ha anche superato mio marito. Ha fatto carriera, era intelligente anche se non aveva voluto studiare.

Nel cuore tutta la vita

Al lavoro mio fratello ha conosciuto Marisa per la quale ha sempre avuto una simpatia. Da ragazzina era andata a lavorare lì in estate per mettere da parte un po’ di soldi per l’università, era la sua segretaria. Lei si è sposata con un ingegnere e ha avuto due figli maschi. Quando sono rimasti entrambi vedovi hanno cominciato frequentarsi e poi hanno pensato di andare a vivere insieme. Lei è una professoressa di lettere, essendo più giovane di lui ha ancora un paio d’anni d’insegnamento prima della pensione, credo. Lui ha preferito continuare a vivere con la figlia, ma si vedono tutti i fine settimana. Lei non lavora il venerdì e va a trovarlo, soprattutto ora che lui comincia ad avere qualche problemino di salute. Passano insieme l’estate in montagna e vanno anche un po’ al mare. Una volta me l’ha fatta conoscere, l’ha portata qui e mi è piaciuta molto. È una persona colta, intelligente e molto educata e poi gli è rimasto nel cuore tutta la vita.

La nuova famiglia

Mia figlia Sandra

Una vita difficile

Mia figlia assomiglia caratterialmente a mia mamma e un po’ mi dispiace. È intelligente, generosa e buona per carità, ma è impulsiva e spesso agisce in modo brusco. Io sto zitta finché le passa perché dopo due minuti non si ricorda neanche, credo non si renda conto di quello che dice. Ha avuto una vita difficile, forse anche questo ha influito sul suo carattere.

È stata sposata due volte. Ha conosciuto Enrico, il primo marito e padre delle mie nipoti, all’oratorio. Lui aveva quattro anni più di Sandra, il prete gli aveva consigliato di frequentare le ragazze che incontrava all’oratorio, nominandone alcune compreso mia figlia. Hanno cominciato a conoscersi e quando lei ha compiuto diciotto anni, le ha chiesto di fidanzarsi. Le ha fatto recapitare un enorme mazzo di fiori a casa. In quell’occasione mi sono presa una lavata di testa da mio marito: secondo lui, non avrei dovuto accettarlo. Gli ho detto che avevo portato in casa i fiori trovati fuori dalla porta, e che non stava a noi decidere poiché erano indirizzati a Sandra e non conoscevamo neanche il mittente. Lui, per tutta risposta, ha aperto il bigliettino e continuato a borbottare che non avrei dovuto agire in quel modo.

In seguito mia figlia mi ha chiesto un consiglio, io le ho risposto: “tesoro deve piacere a te, non devi chiederlo a me. Io ho preso il papà per fare dispetto alla nonna, non perché mi piaceva e poi guarda che bel matrimonio ho avuto, solo tu puoi prendere la decisione. Hai diciotto anni, prenditi un po’ di tempo per capire, provaci e poi deciderai.” Con il tempo si è affezionata a Enrico e si sono sposati. Hanno avuto le due bambine, poi sono sorti dei problemi. Mia figlia l’ha perdonato una, due, tre volte, ma la situazione non è migliorata. Sandra non ne ha potuto più. “Io non sono né gobba, né storta, lavoro, sono intelligente… perché devo accettare tutto questo?” diceva. E così gli ha messo la valigia fuori dalla porta e l’ha cacciato di casa definitivamente.

Le figlie erano piccoline quando mia figlia ha divorziato, Manuela aveva tre, quattro anni, Marta solo due, non credo abbiano sofferto tanto; ora sono in contatto con il papà e ogni tanto si vedono. Lui poi è attaccatissimo al nipote, Pablo, il figlio di Marta, tutto quello che non ha mai fatto per le ragazze lo fa per lui. Da piccole non sapevano il motivo della separazione, ma andavano malvolentieri dal padre, soprattutto per la sua compagna che era un po’ scostante. Quando poi è nato Pablo anche lei gli si è affezionata anche se non hai mai voluto essere chiamata nonna. Lui ora è un po’ malandato, pieno di dolori, già vecchio, mia figlia ha 70 di anni, lui ne ha 74 o 75; in realtà non è poi così vecchio però dice che è molto acciaccato.

Il giorno in cui Sandra ha deciso di separarsi, mio papà era venuto a Milano per un congresso in un grande albergo appena fuori Milano e aveva invitato me e Sandra alla cena. Le aveva suggerito di lasciare le bambine dalla suocera, perché sapeva che mio genero era andato a sciare. Lei mi disse solo che non poteva venire e che era in un momento di disperazione, ma che non voleva parlarne. Stava piangendo, singhiozzando. Mi si è stretto il cuore a sentirla così, ma non le ho chiesto nulla e l’ho lasciata stare. Dissi a mio padre che Sandra non poteva venire, io andai ma non riuscii a godermi la serata. Il giorno dopo mi recai da lei e mi raccontò tutto. Aveva una faccia terribile, l’ho vista davvero disperata, così quando mi ha chiesto di tenerle le bambine perché voleva andare una settimana nella nostra casa in montagna, mi sono rifiutata. Avevo paura che le succedesse qualcosa, le ho proposto di andare con le bambine o di accompagnarla. Lo ricordo con molto dispiacere, mi sono dovuta imporre nonostante la sua insistenza. Non mi sembrava opportuno che stesse da sola, era troppo disperata. Lei si arrabbiò terribilmente, buttò le chiavi della casa di montagna giù dalle scale e mi urlò di andarmene e di non farmi più vedere. Stetti molto male, piansi tutto il viaggio di ritorno a casa, sulla metropolitana mi guardavano tutti per i lacrimoni che scendevano. É stato proprio un periodo difficile.

Mia figlia piano piano si è ripresa, noi abbiamo cercato di starle vicini, andavamo da lei a Cinisello la sera dopo il lavoro. Prendevo le ragazze quando uscivano da scuola, cucinavo e quando mio marito tornava andavamo lì con la cena pronta e mangiavamo insieme.

Un uomo d’oro

Mia figlia è rimasta sola a venticinque anni con due bambine piccoline, c’è voluto parecchio tempo perché si riprendesse e ancora di più perché accettasse di essere corteggiata. É stata tantissimi anni da sola. Il secondo marito ha avuto un gran pazienza, affinché lei si fidasse ancora di un uomo. Lui era un uomo d’oro, venne più volte da me a chiedere la sua mano, io gliele avrei date tutte e due, ma non stava a me prendere la decisione. Lei non ne voleva sapere né di matrimonio né di convivenza.

Lui è sempre stato diabetico e ad un certo punto a mia figlia è stato diagnosticato un tumore al seno, così lui insistette per stare con lei, per prendersi reciprocamente cura l’uno dell’altra finché ancora avevano le forze. Lei disse che l’avrebbe sposato solo se lui le avesse comprato una villa, ovviamente scherzando. Invece il giorno dopo, lui l’ha portata a vedere la villa che hanno acquistato. Si sono sposati e sono stati felicissimi. Quando ho saputo del loro matrimonio ho pianto tanto, ero molto felice e, dopo tante tribolazioni, con quell’uomo ha avuto finalmente la vita che meritava anche se per pochi anni.

Era un uomo adorabile, i regali più importanti li ho ricevuti da mio genero, Giampiero, tutte cose bellissime, ma soprattutto pensieri affettuosi di chi ha premura e si prende cura delle persone che ama. É stato lui a regalarmi il forno a microonde quando si è reso conto che avevo problemi di vista, per permettermi di continuare a fare la mia vita. Non sarebbe stato più sicuro per me usare il forno tradizionale, mentre con questo era più facile e meno pericoloso.

Era un uomo molto sensibile, capiva le persone e i loro bisogni e si affezionava a tutti. Quando mia figlia andava ai convegni di sabato e di domenica, lui, per non farmi stare da sola, o veniva qui a pranzo oppure mi portava al ristorante o a casa sua e poi mi riaccompagnava. L’ultima volta che è venuto stava già molto male, mi disse che aveva il pranzo pronto, ma per evitare di venirmi a prendere e poi riportarmi a Milano, avremmo mangiato qui e mi avrebbe accompagnato a ballare evitando di fare molte volte la strada da casa sua in Brianza a Milano.

Quando si è aggravato, mia figlia è stata mesi in poltrona al suo capezzale e quando è morto è stato un gran dolore. Forse anche quello le ha peggiorato un po’ il carattere, tutta la sofferenza della sua vita non l’ha aiutata.

Anche mio genero era già stato sposato e aveva due figli. Io l’ho conosciuto mentre ero in montagna. Avevo portato con me le bambine e mia figlia ci raggiunse con lui e i suoi figli. La figlia si era anche legata alle mie nipoti, però deve aver sofferto molto per la separazione dei genitori perché ne ha fatte passare di tutti i colori a Sandra. Non ha mai gradito che il padre la frequentasse, e ancora adesso che lui è morto discute con mia figlia per chi conserva le ceneri. Una cosa davvero spiacevole. Approfittando della malattia di mio genero i figli sono anche riusciti a prendere i soldi che c’erano sul suo conto, senza preoccuparsi che c’era anche lo stipendio di mia figlia e che quei soldi non erano loro. L’hanno fregata ovunque hanno potuto, una cosa molto triste.

Per fortuna mia figlia ha avuto questi ultimi quattro, cinque anni felici con Giampiero, un uomo con un cuore d’oro, che le ha dato tutto.

Inermi di fronte alle difficoltà

Mia figlia è sempre stata una donna forte che voleva fare tutto da sola. Quando è stata operata per il tumore non ci ha detto nulla. Eravamo ad Ischia, lei ci chiamò senza dirci dell’intervento, ma ricordo che aveva un filo di voce. All’inizio non ci abbiamo prestato attenzione, eravamo a pranzo a casa di amici con una quarantina di persone su una terrazza vista mare, c’era molto rumore, tanti bambini che giocavano, dei cagnolini che abbaiavano, non capivamo tanto. Poi dopo aver attaccato mio marito mi disse: “Ma Sandra aveva una vocina così bassa”, però abbiamo pensato fosse influenzata, e invece probabilmente era appena stata operata. Anche quando siamo tornati non ci ha detto nulla, non ci siamo più viste fino ai primi di dicembre, mi diceva che era impegnata e aveva tanto lavoro. La voce era strana, non era la solita, sosteneva che era solo molto stanca. Quando mi lamentavo che non venisse a trovarci e proponevo che andassimo noi da loro, rispondeva che proprio non aveva tempo e che ci saremmo visti il dieci dicembre per il compleanno di mio marito. Non poteva evitare quell’incontro. Una settimana prima mi telefonò dicendomi che avevano deciso di organizzare il pranzo da loro domenica. Vennero a prenderci e durante il pranzo notai che faceva tutto mio genero, mentre lei a stento si alzava. Lui è sempre stato bravo però mi sembrava un atteggiamento strano, diverso dal solito. Quando finimmo di pranzare, mentre prendevamo il caffè, mi disse: “ho due notizie da darti, una bella e una brutta, quale vuoi sapere per prima?” Chiesi di sapere prima quella brutta e così mi disse che era stata operata al seno, che aveva quattro noduli, ma che la bella notizia era che erano riusciti a toglierli e sembrava tutto risolto. Per un attimo, non sentii più le gambe, fortuna che ero seduta, ebbi come un mancamento alla notizia. Poi al pensiero che fosse risolto mi tranquillizzai. Mi raccontò della radioterapia e tutto quello che aveva dovuto affrontare. Io e mio marito ci sentimmo persi, non sapevamo cosa dire, mio genero peggiorava, lei era stata appena operata, eravamo inermi di fronte a quelle difficoltà. Mio genero è venuto a mancare dopo poco, l’antivigilia di Natale ci fu il suo funerale. La vita di mia figlia fu sconvolta un’altra volta. Da allora per lei il periodo di Natale è molto triste. Ha difficoltà a stare a casa durante le vacanze, vorrebbe fare dei viaggi, ma le dispiace che io resti sola. Qualche volta me lo rimprovera, a nulla serve dirle che non è necessario, che può partire e che io me la cavo.

Mia figlia borbotta

Sono già tre anni che è vedova, ha impiegato un po’ di tempo a vendere la casa di Lesmo in Brianza, perché era molto grande, e da poco si è trasferita a Mantova dove ci sono tutti i suoi cugini e alcune colleghe che frequentava durante i seminari in Lombardia. È una città a misura d’uomo, una città d’arte e di cultura e lei ci si trova bene. Ha comprato un appartamento in pieno centro, così può uscire tutte le sere anche a piedi e partecipare ai numerosi eventi della città. Un’altra vita rispetto a quando era in Brianza, dove usciva molto meno, doveva prendere l’auto per ogni spostamento, il primo negozio era a 4-5 chilometri, aveva bisogno della macchina anche solo per andare a comprare il giornale.

L’altra sera è venuta a trovarmi, è andata al ristorante qui vicino e ha portato da mangiare, così non abbiamo dovuto cucinare. Quando viene si lamenta, le danno fastidio le cose che sono a vista sulle mensole di cucina. Io le rispondo che questa è casa mia e faccio quello che voglio. Non gradisco che tocchi le mie cose perché so dove sono, appoggio la mano e trovo tutto. Lei borbotta, mi suggerisce di mettere le cose nei cassetti o negli armadi, ma dopo non trovo più ciò che mi occorre. Ho bisogno di avere le cose a portata di mano, così so i posti senza guardare perché ormai non ci vedo quasi più. Anche quando viene la ragazza a fare pulizia le chiedo di non spostare niente.

Per lo stesso motivo non posso assecondarla quando mi chiede di trasferirmi a Mantova. Lei pensa che non voglio andare a vivere con lei, perciò mi propone di andare ad abitare nell’appartamento al piano inferiore al suo, che pare sia bellissimo, nella via più bella di Mantova con tutte le case antiche rimodernate, già ristrutturate. Il mio problema, però, è cambiare casa e le mie abitudini.

Mia nipote Manuela

Manuela e l’amore

La mia prima nipote, Manuela, si è sposata con il primo fidanzato, come ho fatto io. Era la mamma di lui che ci teneva tanto. Dopo tante insistenze della madre, anche lei si è convinta che potesse essere quello giusto però era perplessa per la giovane età e il desiderio di andare avanti con gli studi. Nonostante ciò al primo o al secondo anno di università si sono fidanzati, mentre lui faceva la Bocconi e lei l’Università Statale. Poiché anche lui si rendeva conto che ci sarebbero voluti ancora molti anni prima di poter mettere su famiglia, tra lo studio, il militare e poi il praticantato, le manifestò il desiderio di non avere una relazione troppo stretta, proponendole di restare amici. Per lei è stato un dispiacere, evidentemente alla fine si era un po’ innamorata. Così quell’anno, mentre i suoi andavano in vacanza, lei decise di punto in bianco di partire per l’Inghilterra, come ragazza alla pari. Di solito organizzava con i genitori di andare un paio di settimane durante le vacanze estive in un college in Inghilterra per studiare la lingua, invece quell’anno, senza dire niente a casa, si organizzò da sola e disse alla mamma: “Domani parto, vado in Inghilterra”, la madre un po’ preoccupata le chiese come si era organizzata e lei rispose che sarebbe andata tre mesi alla pari. Mia figlia si sentì quasi male, “ma ti rendi conto cosa vuol dire alla pari? Vai a fare la donna di servizio!” le disse. Mia nipote imperterrita le rispose: “Imparerò anche a fare la donna di servizio”. Così partì da sola, ma si trovò malissimo con la famiglia. Per fortuna frequentava una scuola d’inglese dove conobbe una ragazza milanese che viveva in Inghilterra già da un po’ di tempo. Chiacchierando venne a sapere che anche lei era stata da loro e che se ne era andata appena possibile. Andarono insieme all’agenzia e infine ha trovato una famiglia stupenda. La signora era ginecologa, il marito pediatra; lui lavorava tutto il giorno mentre la signora lavorava solo il pomeriggio e aveva lo studio in casa. Mia nipote trascorreva molto tempo al mattino con lei, facevano i lavori insieme ed ha imparato tanto, anche a curare il giardino. Nel pomeriggio, mentre la signora lavorava, lei insegnava italiano ai due bambini. Erano molto gentili e generosi con lei ed è tornata a casa praticamente madrelingua. Questa esperienza le è servita a fare carriera, forse anche più della laurea in giurisprudenza.

Quando lei e Carlo si sono laureati si sono sposati e avevano già la casa grazie alla famiglia di lui.

Manuela è avvocato in una delle più importanti ditte in ambito navale, ha molti incarichi da una società americana e viaggia spesso. Adesso che ha 47 anni sta pensando di mettersi in proprio, potrebbe appoggiarsi allo studio del marito, che ha un’intera palazzina con vari studi professionali e numerosi collaboratori e segretarie condivise tra i vari professionisti per cui anche lei potrebbe usufruirne. I clienti americani le hanno già detto che potrebbe continuare a lavorare per loro anche in proprio e per lei e il marito sarebbe bello perché così potrebbero finalmente vivere insieme. Attualmente lei vive in Toscana, a Forte dei Marmi, dove si trova la ditta per cui lavora, lui a Trezzano sull’Adda. Entrambi viaggiano tanto, lui la raggiunge tutti i venerdì e si trattiene fino al lunedì o al martedì perché spesso può lavorare da casa.

Era una bambola

Ricordo quando fece il debutto in società insieme alla figlia di una collega di mia figlia, compivano entrambe gli anni ad aprile e fecero una grande festa alla Fiera Campionaria: una festa incredibile. L’amica si sarebbe vestita di bianco e si erano raccomandati di non vestirsi con quel colore. Mia nipote mi chiese un consiglio e io le dissi: “Sei biondissima con la carnagione bella chiara, facciamo un vestito tutto blu, un bel taffetà di seta pura blu”. Scegliemmo insieme il modello definendo tutti i dettagli. Andai a Como a prendere la seta pura, una seta stupenda e le feci un abito meraviglioso, molto elegante. Mia figlia le comprò le scarpe e la pochette, tutto perfetto. Era una bambola! Mia nipote Manuela non è mai stata portata per queste cose, una festa di questo tipo non era il suo genere, perciò a mezzanotte chiese a mia figlia di portarla via perché era stanca. Il giorno dopo avevo io l’abito, compreso scarpe e pochette, tutto. Mi ha detto: “Tieni tu l’abito, io non lo voglio neanche più vedere”.

Mia nipote Marta

Marta e i colpi di fulmine

Marta assomiglia a me, siamo molto legate, da sempre; è un tesoro non passa giorno senza che mi telefoni, anche dall’ufficio, appena ha due minuti di tempo, ed è molto affettuosa. Io poi sbaglio, lo dico a mia figlia, che si lamenta che non la sente spesso. Mi dispiaccio e mi riprometto di stare più attenta la volta successiva per evitare discussioni. Ho fatto lo stesso errore, ingenuamente, quando Marta ha avuto il primo fidanzatino. Ero in metropolitana, stavo scendendo dalla linea verde per prendere la linea rossa e mi sento chiamare: “Nonna!”, non riconosco subito la voce, girandomi vedo mia nipote vicino ad un ragazzo e noto che entrambi mi sorridono come se si conoscessero. Dopo qualche giorno mi chiama per invitarsi a pranzo, io e mio marito, sempre contenti di vedere le ragazze, le rispondiamo che la aspettiamo con piacere. Il giorno successivo si presenta con il ragazzo cisto in metropolitana, me lo presenta e mi chiede se può rimanere per pranzo. Io resto interdetta, ma rispondo di sì se sono disponibili a dividersi quello che c’era. É stata furba, sa che io non so stare zitta, così alla prima telefonata ho raccontato l’accaduto a mia figlia, la quale mi ha rimproverata dicendo che avremmo dovuto chiedere il permesso a lei. Ho reagito dicendo che non avrei potuto mandarli via, sono arrivati di punto in bianco, senza avvertire nessuno. Comunque nulla di grave, i soliti screzi che ci sono tra noi.

Anche quando ha conosciuto suo marito, ne ha parlato prima a me che a sua madre. In quel periodo stava da me perché era estate e lavorava al Boscoincittà (un parco pubblico del Comune di Milano N.d.A.), faceva un lavoro con i ragazzi per il Comune. Una sera mi informò che non sarebbe tornata a casa l’indomani perché era più comodo tornare a casa sua dopo la festa di compleanno di un’amica. Qualche giorno dopo la festa ci vedemmo e mi domandò se credessi nei colpi di fulmine. Non ne avevo mai avuti, perciò non avevo un parere a riguardo. Mi raccontò che alla festa c’era un cretino rimasto colpito dalla sua vivacità dal primo giorno in cui l’aveva vista. Erano compagni di scuola, ma lui era di qualche anno più grande; lei non lo aveva mai notato e alla richiesta di un appuntamento, disse di no. Il ragazzo non si perse d’animo, insistette per incontrarla e alla fine mia nipote, per declinare l’invito, gli raccontò del progetto del Comune a Boscoincittà. La mostra dei lavori artistici fatti con i ragazzi del progetto l’avrebbe tenuta molto occupata e gli rivelò minuziosamente ogni dettaglio. Lui non si fece scappare l’occasione e disse che sarebbe andato a darle una mano. Andò alla mostra e si presentò con una bellissima scatola d’argento, appartenuta a sua mamma, piena di petali di rose. Gliela offrì e mentre erano lì che tubavano, arrivarono mia figlia e mio genero, i quali, invece di andare al cinema, avevano pensato di fare una sorpresa alla figlia. Il giorno dopo al telefono mia figlia mi raccontò l’accaduto e mi chiese se conoscevo questo ragazzo. Le riportai la conversazione avuta con Marta e anche quella volta mia figlia mi fece una lavata di testa perché non le avevo detto nulla.

Non c’è nulla da fare, ogni volta mi pento, ma al momento non riesco proprio a starmi zitta. Avrei potuto benissimo omettere il tutto, ma proprio non ci penso. Non voglio riferirle quello che le ragazze mi confidano, ma non riesco neanche a far finta di non sapere nulla quando lei mi chiede notizie. Le mie nipoti si sono sempre confidate molto con me, siamo molto legate e durante il periodo universitario sono state da me perché si erano trasferiti a Bergamo ed era più comodo per loro vivere a Milano per frequentare le lezioni. Dormivano qui, mangiavano qui, studiavano qui e quindi mi raccontavano tutto, anche dei primi spasimanti.

Pablo

Mia nipote Marta abita a Gallarate e ha un figlio, Pablo, attualmente in America con una borsa di studio per fare la quarta liceo scientifico. È identico alla mamma che ha 44 anni, ma non li dimostra, sembra ancora una ragazzina, snella e alta. Anche Pablo è snello ed è alto un metro e novanta, come mio marito e mio padre. Da lui ha preso anche le mani e in modo di camminare. Pablo ha studiato al conservatorio pianoforte, batteria e canto e ricorda il bisnonno con quel suo modo di suonare la musica anche con due cucchiai, le chiavi della macchina, qualunque cosa abbia in mano. In America è stato immediatamente inserito nel coro della scuola, fa parte della didattica, ma vanno a cantare anche nei teatri.

Finché mio marito non si è aggravato ci siamo presi cura anche del mio pronipote Pablo. Gli voglio un bene dell’anima. Ora che è in America mi manca tanto. Tra qualche mese la zia, che va in America per lavoro, passa a trovarlo e non vedo l’ora di avere sue notizie al ritorno. Ogni tanto mi chiama, mi racconta qualcosa; si trova molto bene sia a scuola che con la famiglia. Vive in una famiglia molto bella, sono benestanti e laureati, hanno una bellissima casa e due figli, uno al primo anno di università, l’altro ha un anno in meno di Pablo e sono molto legati. A scuola frequentano la stessa classe di matematica per cui studiano e trascorrono tanto tempo insieme, si considerano come fratelli.

Non si è ancora pronunciato su cosa vorrà fare dopo la maturità. Anche l’anno scorso ci ha detto tutto all’ultimo. Aveva detto che avrebbe fatto di tutto per vincere la borsa di studio e andare in America. Noi pensavamo fosse uno scherzo, è figlio unico e un po’ mammone, invece l’ha vinta ed è partito in quattro e quattr’otto. Magari ci dirà cosa vuole fare una settimana prima che cominci l’università. Potrebbe anche decidere di rimanere in America.

Al giorno d’oggi penso che gli uomini siano un po’ bamboccioni, a differenza di una volta in cui pensavano a fare una famiglia adesso restano in famiglia tanto; se escono che hanno 30 anni è presto! Sono contenta che il mio Pablo, che non ha ancora 18 anni è andato all’estero, fuori casa, lavora e si mantiene gli studi. Ha già detto che si pagherà l’università e so che lo farà senz’altro. Sa suonare il pianoforte e cantare, dice che andrà nei pianobar o nei ristoranti a lavare le pentole, se necessario.

Gli anni passano

Ieri

Sessantesimo di matrimonio

Per il sessantesimo anniversario di matrimonio ho espresso a mio marito il desiderio di risposarmi nella stessa chiesa dove ci siamo sposati e fare il viaggio a Sanremo dove eravamo andati in viaggio di nozze. Purtroppo non ha potuto celebrare il rinnovo dei voti matrimoniali lo stesso prete, poiché era morto, ma è stata una cerimonia molto bella e commovente. Il parroco ha fatto una predica meravigliosa, aveva 86, 87 anni, ma era lucidissimo, ha detto che la nostra missione era spiegare ai giovani come avevamo fatto a superare i problemi – che dava per certo avessimo avuto come tutti nel corso del matrimonio – motivarli a superare le difficoltà grazie alla nostra esperienza, poiché molto spesso i giovani si separano dopo pochi mesi o anni, mentre i matrimoni devono durare tutta la vita. È stata una predica molto sentita, che ha emozionato proprio tutti. Dopo la chiesa siamo andati in un bellissimo ristorante, prenotato da mio fratello, fuori Mantova e la sera siamo tornati a Milano. Eravamo stanchi, essendo partiti la mattina presto per Mantova e poi il giorno dopo avevamo in programma la partenza per Sanremo. In viaggio di nozze eravamo andati dai miei cognati, ma stavolta le mie nipoti ci hanno regalato tre settimane di soggiorno in un bell’albergo. Mio marito non stava molto bene, andava in giro con il bastone ed era già un po’ via con la testa però abbiamo fatto una bella vacanza.

Da mio marito ho ricevuto un paio di orecchini di perle molto belli che ho dato a mia figlia per paura di perderli. Volevo darle anche la collana di perle, ma non l’ha voluta, dicendo che magari avrei avuto occasione di indossarla ancora. Inoltre mi ha comprato degli orecchini in argento di perle di fiume da poter abbinare.

La malattia di mio marito

Quando è cominciata la malattia di mio marito è stato molto difficile. É cambiato tantissimo, all’inizio l’ho saputo nascondere bene perché pensavo fosse un cambiamento dovuto all’età. Era un uomo meraviglioso, a cinquanta anni ha avuto un brutto incidente ed è stato fermo due anni. Quando l’hanno portato in ospedale pensavano fosse morto, la testa spaccata, tutti i denti saltati via, non aveva un centimetro del corpo sano. All’inizio pensavo che fosse a causa della vecchiaia e dell’incidente e avevo pazienza, mia figlia invece aveva capito di cosa si trattava. I primi tempi in cui c’eravamo trasferiti qui andavamo insieme tutti i giorni al parco, lui giocava a bocce, io guardavo e poi andavamo al barettino a bere il caffè, ci facevamo delle belle passeggiate nel parco. Poi con la malattia era diventato pigro, stava tutto il tempo seduto al computer. Per evitarlo, ho detto che il computer era rotto, al mattino lo portavo al parco e il pomeriggio a Bonola a prendere il gelato. Intorno ai settantacinque anni però è peggiorato molto e non riuscivo più a tenerlo. Si arrabbiava per niente, prendeva e lanciava le cose, rompeva tutto, quando invece era un uomo di un’educazione incredibile. Non andava mai bene niente, magari mi diceva di andare a prendergli il giornale e poi si metteva alla finestra ad urlare contro di me: “Dove sei stata fino adesso? Torna dove sei stata fino adesso!” e non mi faceva più entrare in casa. Dovevo chiamare la vicina che lo convinceva a farsi aprire, così, abbassando la testa, sgattaiolavo dentro. Una volta mentre ero in doccia lui è uscito di casa. Quando me ne sono accorta, mi sono vestita di corsa, ho avvertito i miei vicini e siamo andati tutti alla ricerca di mio marito, lo conoscevano e sapevano la situazione. Dopo quattro ore è tornato tutto felice raccontando di essere stato al parco, aver girato e bevuto il caffè, era proprio contento come se fosse tutto normale. Poi abbiamo scoperto che aveva lasciato il portafogli da qualche parte e non l’abbiamo più trovato. Da allora quando andavo in doccia chiudevo la porta di casa a chiave e la tenevo in tasca. Sono stati momenti davvero difficili, era diventata una persona imprevedibile. Verso la fine era anche violento, mi correva dietro minacciandomi con i coltelli, avevo dovuto togliere tutti i coltelli e le forbici di casa, tagliavo con le mani. Altre volte andava davanti alla finestra e minacciava di buttarsi giù. Era diventato impossibile vivere così. Mia figlia non si era resa conto della gravità finché non l’ha visto con i suoi occhi. Era qui a pranzo, lui ha preso il piatto della minestra bollente e gliel’ha buttato in faccia. Lui che viveva per sua figlia. Era la malattia.

Me l’hanno portato via

Poi è caduto e si è rotto il femore, non poteva più camminare e andava in giro sulla sedia a rotelle, ma bisognava legarlo e quando doveva alzarsi, lo dovevo tenere affinché non cadesse. Lui non voleva e reagiva con pugni, calci, ginocchiate. Non riuscivo a trattenerlo, mio marito era alto un metro e ottantasei e, a parte la gamba, stava bene, era molto forte. Tentava di picchiare anche gli infermieri e i medici appena lo toccavano. Loro sapevano come trattarlo, io invece non sapevo e non avevo la forza.

Continuava a peggiorare. Una mattina mia figlia e suo marito me l’hanno portato via. È stato molto doloroso per me. L’hanno messo in un posto molto bello del Vescovado dove stava bene e comunque ormai non capiva neanche più dove fosse. Me l’hanno portato via così da un momento all’altro. Mia figlia mi ha detto: “Mamma non è neanche più dignitoso per lui”. Hanno fatto bene, ma sono stata tanto male. Andavo a trovarlo tutti i giorni, con il treno e facevo anche un bel pezzo di strada a piedi. Ma talvolta era terribile. C’erano momenti in cui mi prendeva le mani e mi accarezzava e altri in cui diventava un’altra persona. Un giorno avevo un foulard intorno al collo, eravamo vicini, lui mi accarezzava le mani e ad un certo punto, in un attimo, ha preso i due lembi del foulard e ha iniziato a stringere. Mi stava strozzando, ero già cianotica, per fortuna un infermiere passando mi vide e gli diede una gran pacca sulle mani gridandogli: “Ma cosa stai facendo?” Io sono rimasta scioccata, a mia figlia non ho avuto il coraggio di raccontarlo, ma gliel’hanno detto loro ed è venuta subito a vedere come stavo.

Sono stati anni difficilissimi, piangevo sempre. Il giorno che non andavo, perché avevo degli impegni, piangevo perché non potevo andare e quando andavo piangevo perché lo vedevo in quelle condizioni. È stato così per più di undici anni. Ero dimagrita in un modo impressionante, sono sempre stata molto magra, ma ero diventata pelle e ossa. Ho pianto tanto, ma riuscivo a trovare la forza di andare avanti, ho preso il carattere forte di mio papà. Mia mamma era quella che si arrabbiava sempre, ma sono convinta che i caratteri deboli si arrabbiano per stupidaggini, mentre mio padre, che parlava poco, era quello con il carattere più forte.

Il dolore era mio

Sono stati anni davvero difficili, superavo le difficoltà tenendomi tutto dentro. Per orgoglio non volevo aiuto da nessuno, ma mi sono dispiaciuta del comportamento del signor Contardo. Avevamo un buon rapporto con tutta la loro famiglia, mio marito ha lavorato tanto per suo padre e poi per lui e si sono scambiati innumerevoli favori. Si era molto legato al signor Contardo, ogni tanto gli mandava delle lettere in cui gli diceva che per lui non era il suo datore di lavoro, ma era come un fratello.

Quando è stato ricoverato già non lavorava più per lui, ma siccome aveva sempre continuato a fargli gli auguri per il compleanno il cinque di ottobre e quell’anno non li aveva ricevuti, il signor Contardo si era preoccupato e aveva chiamato per sapere se fosse successo qualcosa. Gli ho detto che purtroppo mio marito si era aggravato, ha voluto sapere tutto e ha continuato a chiamare ancora 3-4 volte, chiedendo anche delle condizioni finanziarie. Io sono stata molto sincera con lui, ci conoscevamo da una vita, l’ho conosciuto che era un ragazzino con i pantaloncini corti quando il padre ci ha offerto la casa sotto la loro, gli davo del lei per rispetto, ma eravamo in confidenza. Mi ha chiesto la situazione, ha voluto sapere tutto e gli ho detto con sincerità le mie preoccupazioni, i miei problemi. Prima lavoravamo entrambi, poi lui si era ammalato e io cominciavo già a non vedere bene. Inoltre non avevo più tempo per lavorare con un uomo in quelle condizioni; mio marito aveva una buona pensione, ma non bastava perché mia figlia l’aveva messo in una clinica privata, molto bella, ma ogni mese mancavano 400 € che prendevo dai risparmi. Non sapevo quanto sarebbero durati i risparmi di una vita, lui era sano e infatti ha vissuto ancora undici anni in ricovero. Sul momento il signor Contardo è stato molto partecipe, mi ha detto di non preoccuparmi e che eventualmente avrebbe cercato di venirci incontro. Purtroppo, però, non l’ho più sentito da allora, non mi ha mai più chiesto niente, non ho avuto la soddisfazione di dirgli: “No grazie faccio con i miei mezzi”. Quando ha smesso di telefonare, ha iniziato a chiamare la sua segretaria e questo mi ha dato molto fastidio. Diceva di chiamare di sua iniziativa, ma non ci credevo perché conosceva pochissimo mio marito. Mi teneva un’ora al telefono, raccontandomi un sacco di cose e chiedendomi tutto di mio marito, la prima volta ho riferito poi mi sono stufata e da allora non ha più chiamato.

Quando è morto non l’ho detto a nessuno, nessuno si era più interessato, perché dovevo dirlo? Il dolore era mio e basta perché almeno una telefonatina all’anno per chiedere come stava avrebbe potuto farla. Neanche i suoi cugini si sono interessati. Eppure eravamo amici, avevamo abitato a lungo nella stessa casa; era come una villetta, noi avevamo l’appartamento al pianterreno, Contardo al primo piano e al secondo piano abitavano i cugini.

Il funerale di mio marito

Al funerale di mio marito mia nipote ha raccontato tanti episodi della nostra vita ed è stato molto commovente. Ha raccontato di tutte le cose che facevano con il nonno e come lui la difendeva sempre, anche quando faceva i capricci. Ha raccontato dei rimproveri di mio marito quando dovevo farle le iniezioni, lei si lamentava e lui, invece di aiutarmi a calmare la bambina, mi sgridava, dicendo che la facevo piangere e non le volevo bene. In quel momento l’avrei ucciso.

Oggi

Adesso mi sembra di essere una signora

Mia figlia non sapeva delle difficoltà economiche e dei miei sforzi per non utilizzare i risparmi. Anche mio fratello si era offerto di aiutarmi, ma sono troppo orgogliosa. Solo dopo la morte di mio marito si è resa conto dei sacrifici che avevo fatto in quegli anni, risparmiavo su tutto, alcune volte mancava anche la pasta in casa, ma ho tirato avanti da sola e a testa alta. Quando ho cominciato ad andare dall’assistente sociale molti problemi sono stati risolti e ho tirato un sospiro di sollievo. Essendo ipovedente hanno pensato che avessi bisogno anche dei pasti a casa e adesso mi sembra di essere una signora. Ho la reversibilità e non devo niente a nessuno. I primi 3-4 anni della malattia di mio marito non mi compravo neanche un fazzoletto per il naso, niente. Tenevo dentro i dolori e le preoccupazioni andando in giro a testa alta; riuscivo a incontrare le persone e sorridere anche perché è inutile piangersi addosso. Mi è capitata questa sfortuna, ma ho fatto una bella vita, non mi è mancato nulla, avevo un marito d’oro. Cosa potevo pretendere di più? Ho avuto un momento di difficoltà e mi sono arrangiata da sola. Sono ancora qua, ancora lucida – almeno credo – ho fatto la nonna, la figlia, la mamma, ho lavorato e ho tenuto a casa il marito, sono soddisfatta della mia vita. Anche i problemi di vista e quelli legati alle gambe non li ho presi male. Gli anni ce li ho e ci sono condizioni peggiori delle mie. Io non guardo le persone che stanno meglio, guardo chi sta peggio ed è più facile tirare avanti. Vedo quelli che camminano bene e ci vedono meglio di me, ma magari sono sordi o hanno difficoltà a respirare o devono portare il pannolone e ringrazio Dio che gli esami del sangue sono perfetti, l’intestino è un orologio e non ho bisogno del pannolone. Spero di morire prima di aver bisogno del pannolone. Il fegato va bene, ho appetito e mangio di tutto, non tantissimo, ma digerisco anche i sassi, cosa posso volere di più?

Ho solo un piccolo rimpianto. Un pensiero sciocco, puerile, ma che riaffiora ogni tanto. Non ho mai avuto una bambola e l’ho sognata tutta la vita. L’ho detto tante volte a mio marito, ma lui non ha mai capito che se me l’avesse portata mi avrebbe fatto piacere anche da adulta.

 Il cibo e la cucina

Mia mamma era molto brava in cucina, più brava di me, però a me piaceva sbizzarrirmi, sperimentavo, inventavo tante ricette e variavo molto. Mio marito diceva: “Adriana non toccatela in cucina, io non mangio mai le stesse cose, quello che mangiamo oggi forse lo mangeremo tra tre mesi” ed era vero. Adesso invece mangio quasi sempre le stesse cose, non ho più voglia di cucinare, ieri a mezzogiorno ho mangiato una scatoletta di Simmenthal con l’aggiunta di cipolline e cetriolini sottaceto e mezzo panino; la sera due scatolette di tonno con verdura.

Tranne il sabato e la domenica dal lunedì al venerdì mi portano i pasti, però sono sempre le stesse cose e non molto buone: la pastasciutta la do alla ragazza che viene qui a pulire durante la settimana. Suo marito lavora in fabbrica e si trova il pasto già pronto, ben confezionato e gli piace, io invece non la gradisco. A volte danno dei wurstel che mangio abbastanza volentieri con il purè oppure anche dei pezzettini di pollo fritti, non mi piacciono tanto, ma ci aggiungo un po’ di salvia, rosmarino e vino bianco, li faccio andare sul fuoco per cambiare un po’ sapore e li mangio, anche se non sempre ne ho voglia. In generale i piatti di carne e di pesce che portano sono di qualità molto scadente.

Oggi viene mia figlia, e quando c’è qualcuno ho più voglia di preparare qualcosa di saporito. Facciamo gli spaghetti con la salsa verde alla genovese, ho fatto io il pesto con il basilico del mio balcone e per stasera ho già scongelato il passato di verdure, che avevo già preparato, bello dolce, con un po’ di formaggio; la frutta la mangio durante la giornata. Domani vediamo quello che vuole fare Sandra, ho ancora il ripieno di tortelli in congelatore, se ne ha voglia prepariamo due uova e i tortelli altrimenti un risotto oppure le farfalle condite con quel ripieno.

Della cucina mantovana a parte i tortelli, mi piace tanto la polenta con lo stracotto, quello che faceva mia mamma, io non sono mai riuscita a farlo così buono. Forse veniva così bene perché aveva la cucina economica, mi riferisco a quando ero ancora ragazza. A Mantova vivevamo in una casa d’epoca, un convento del ‘500 che aveva le cucine economiche, lei metteva nell’angolino la pentola di terracotta e lasciava bollire lentamente per giorni, inoltre non usava il Barolo, ma un vino economico, che emanava un ottimo profumo, lo ricordo ancora, era proprio buono. Il primo giorno lo mangiavamo con la polenta e quello successivo lo usava per i ravioli e che ravioli! Anche i tortelli di zucca mi piacciono e in generale la cucina mantovana, che somiglia molto alla cucina bolognese, anche se è più leggera, noi usiamo un po’ meno burro, un po’ meno condimento.

Questa è la mia casa

Ho sempre amato la mia citta, ma ora mi piace stare qui e anche se mia figlia vorrebbe che andassi a vivere a Mantova per stare vicine, io non mi voglio trasferire. Ho sempre abitato qua, questa è la mia casa. Finché ce la faccio voglio vivere qui. Sono contenta perché ho sempre qualcuno vicino, tutti i giorni viene una ragazza per un’ora a darmi una mano con la casa perché sono in monitoraggio a causa dell’ipovedenza. In realtà quando viene ho già fatto tutto, ma lei vede quello che io non ho visto o stira. Di solito chiacchieriamo un po’, controlla che non abbia qualche macchiolina sui vestiti, può capitare che magari non me ne accorga non vedendo bene e non voglio stare in casa sporca, poi controlla la casa, io cerco di fare tutto ogni giorno, ma se non è abbastanza lei provvede al resto. Una volta o due al mese chiamo una persona che fa una bella pulizia. Ho delle persone che mi aiutano, ma se vado via da questa casa non mi bastano questi aiuti, dovrei prendere una donna fissa che limiterebbe la mia libertà. Voglio evitarlo finché posso.

Due o tre volte alla settimana viene da quasi tre anni una volontaria molto cara. Ci siamo affezionate l’una all’altra, fa la spesa per me, mi fa compagnia e quando il tempo è bello mi porta al parco di Trenno, facciamo una camminata e andiamo al bar a bere il caffè.

Tutti i giovedì vado dall’Antonio, dai custodi sociali; non vedo l’ora che arrivi il giovedì, passo un paio d’ore in compagnia, è molto bello.

Mi dispiacerebbe andare via da qua dove sono tutti i miei ricordi, ma soprattutto se cambio casa devo cambiare anche i mobili, perché sono molto vecchi e se devo comprarne altri temo di non sapere più dove trovare la roba. In quel caso avrei bisogno di una badante immediatamente, mentre qui per adesso riesco a fare tutto da sola. Non voglio però pesare su mia figlia, finché riesco vorrei stare da sola, poi quando avrò bisogno di qualcuno preferirei essere ricoverata da qualche parte piuttosto che avere una badante, perché ho provato con mio marito e ne ho passate un po’ di tutte. Sono stata sfortunata, io non sono esigente però tutte le badanti che ho avuto si sono approfittate della situazione, pensavano di venire in una casa con due persone anziane e poter fare quello che volevano, ma io allora non ero anziana, non avevo ancora 80 anni. Hanno rubato, non facevano niente, volevano essere servite, alla fine non conviene neanche rispetto ad una casa di riposo. Quella di mio marito costava molto perché era privata, ma sono convinta che mia figlia mi metterà in un posto adeguato, magari a Mantova, ad esempio dove era mia mamma. Quando succederà vedremo, per adesso non voglio pensare a lasciare la mia casa.

Gli incontri dai custodi sociali: un’evasione per me

Ci tengo molto ad andare dai custodi sociali, mi trovo bene, è una bella compagnia. Adesso parlo tanto e magari anche quando viene la volontaria faccio conversazione, ma là invece, se non sono interrogata non parlo, perché mi piace ascoltare, fanno dei ragionamenti interessanti, magari raccontano barzellette. Mi diverto ad ascoltare anche quando dicono stupidaggini, è un’evasione per me. Ascolto, sorrido e mi diverto. Ci vediamo alle due, io arrivo anche un po’ prima perché vengono a prendermi col pulmino o con la macchina e mi riportano a casa verso le quattro e mezza. Devono sempre venirmi a prendere e riportare a casa perché io da sola non potrei andare da nessuna parte. Ogni volta organizzano cose diverse, giovedì scorso abbiamo fatto il pranzo al ristorante, un ristorante cinese in cui ti servi da solo e scegli quello che vuoi, ci fanno anche lo sconto perché siamo un gruppo. Ieri invece c’era la musica e un signore, anche lui già anziano, un po’ traballante come me, viene a cantare. Arriva con la moglie ed ha una bellissima voce da tenore. Qualcuno balla, mentre lui suona il pianoforte e canta. Canta molte delle canzoni che mi cantava mio marito, ad esempio la “Mattinata” di Ruggero Leoncavallo; mio marito me la cantava spesso per cui mi commuovo quando la sento. Mi piace molto sentirlo cantare, è molto bravo, ed è sempre piacevole. Poi si fa una merenda, a volte si gioca ai birilli, fanno giocare anche me, magari quando tiro la palla va dentro il bagno perché non vedo i birilli e faccio ridere tutti. Qualche volta si fa un gioco con le lettere dell’alfabeto, se ne sorteggia una e poi bisogna scrivere i nomi di persone, di animali, di fiori, di piante, di cose che iniziano con quella lettera; io sono sempre la prima a finire e poi suggerisco di qua e di là. Cerco sempre di dire cose non banali, perché per una parola che ha scritto anche qualcun altro il voto è cinque, se invece nessuno altro ha scritto quella parola è dieci e io prendo sempre un bel punteggio.

Siamo circa 24, 25 persone; c’è il capo, l’Antonio, una persona stupenda, e un’altra persona del comune, di solito Andrea. Quello che guida il pulmino non è sempre presente perché è spesso in giro, porta le persone a fare le visite, a prenotarle, all’ospedale, al pronto soccorso e così via. Ci sono anche due volontari, uno è sempre presente ed è una persona simpaticissima, l’altro un po’ meno, è in pensione, era architetto e la figlia ha preso il suo posto, ogni tanto va a darle una mano e per questo non è sempre presente.

Il gioco dell’oca

Ho saputo dei custodi sociali quasi per caso. Ero dall’assistente sociale perché sono ipovedente e lei mi chiese se ero mai andata al pranzo degli anziani, che si organizza una volta al mese. Era una buona occasione, mi disse, per trovarsi almeno ogni tanto con altre persone e mi diede i riferimenti. Un lunedì andai e ritrovai una signora che avevo conosciuto in ospedale quando andavo a trovare mio marito. Anche suo marito aveva la stessa malattia così andavamo entrambe al Redaelli e ad alcuni incontri per il sollievo alle famiglie. Si chiamava Laura, gestiva un barettino dove andavano gli anziani a giocare a carte, bere un bicchiere di vino e cose così. Appena mi vide si ricordò di me e mi raccontò che anche lei era stata informata dall’assistente sociale. Antonio ha subito notato che parlavamo e mi ha detto che dovevo assolutamente andare anche da lui il giovedì. Data l’insistenza, ho provato. Non è stato facile trovarli, avevo l’indirizzo, ma non riuscivo a trovare il numero civico perché il palazzo è in una via interna, al numero civico 117. Andavo avanti e indietro e non lo trovavo. Provai a chiedere più volte, ma nessuno lo conosceva, finché un signore mi suggerì di guardare in una stradina interna. Finalmente trovai il portone giusto. Antonio venne subito a salutarmi, contento che fossi arrivata e dandomi immediatamente del tu. Ricordo che quel giorno avevano organizzato il gioco dell’oca, io avevo perso due volte e dovevo pagare una bottiglia di aranciata e due euro il giovedì successivo, giorno in cui, però, avevo una visita medica per cui non andai. Dentro di me pensavo: “Guarda che figura che faccio, devo pagarli e non vado!” Passati quindici giorni però mi sono presentata con i soldi e da allora ho sempre continuato ad andare.

La conoscenza di Laura

Quando la incontrai al pranzo degli anziani, la riconobbi subito. Non sono una brava osservatrice e quando andavamo in ospedale prestavo sempre poca attenzione, ma un martedì, mentre stavo andando da mio marito e camminavo lungo la strada, sentii il clacson di una macchina dietro di me, continuai incurante, fino a che sentii strombazzare ancora, po – po – po, niente, continuai a tirare dritto mentre il clacson insisteva. Pensai fosse un cretino e mi girai seccata, quando invece vidi che era una signora. Non la riconobbi, ma quando mi disse di salire sull’auto lo feci senza pensarci. Prima che mi rendessi conto dell’incoscienza e decidessi di scendere, mi chiese se stessi andando da mio marito, le risposi affermativamente e mi raccontò di suo marito e che mi vedeva ogni martedì. Era l’unico giorno in cui lei poteva andare a trovarlo perché gli altri giorni doveva occuparsi del bar e anche il martedì non poteva trattenersi molto, andava via un’oretta prima della fine dell’orario di visita per via del bar. Aveva due figlie che andavano gli altri giorni. Mi propose di raggiungerla ogni martedì al bar in modo da poter andare insieme e chiacchierare anche un po’, ma poiché mio marito venne a casa prima e poi fu ricoverato in un altro posto, non la vidi più. Suo marito invece era stato ricoverato lì, era troppo grave e già non poteva tenerlo a casa neanche con la badante. Fino al pranzo con gli anziani non l’avevo più vista nonostante il bar sia qui vicino.

90 anni si compiono una volta sola

Adesso in aprile faccio 90 anni, è già un anno che dico che ne ho 90 perché avevo paura di non arrivarci, ma a questo punto credo proprio di arrivarci.

Per il mio compleanno mi ha detto Antonio che faranno una festa, ci sarà ancora Fiorello, il tenore, quello che canta benissimo e che suona il pianoforte; ha detto che vedrà di fare una bella cosa, dopo io offrirò lo spumante, la torta, non so. Antonio mi ha proposto di far venire anche mia figlia, ma non ne sono sicura visto che festeggeremo anche in famiglia.

Per la festa con la mia famiglia non so nulla. Mi hanno detto che mi vogliono portare fuori per il mio compleanno, perché 90 anni si compiono una volta sola, e poi perché abbiamo sempre festeggiato mio marito e mai il mio compleanno. Loro in realtà lo chiedevano sempre, ma io rispondevo che avevamo già festeggiato il papà. Quest’anno, invece, si sono imposti e hanno detto che mi porteranno da qualche parte, non so dove, non mi interessa, mi fa piacere che ci sarà tutta la famiglia.

L’estate

Per questa estate ho fatto domanda al comune per andare in un posto in Trentino a fare delle cure fisioterapiche. Prima andavo in un altro posto sempre in Trentino e mi accompagnava mia figlia. Il problema è che, anche se faccio la domanda in anticipo, la conferma arriva all’ultimo momento e lei vorrebbe potersi organizzare prima le vacanze. Vorrebbe andare via il periodo che sono via anch’io, per non lasciarmi sola qua, ma deve prenotare in anticipo per cui è complicato. La capisco e le dico di prenotare senza farsi problemi perché non posso saperlo prima. Ora non ho più bisogno che lei mi accompagni, mi hanno detto che per andare in questo altro posto organizzano dei pullman da Cascina Gobba tre volte alla settimana, e, siccome siamo in due o tre amiche a fare la domanda, quelli da cui vado il giovedì potrebbero venire a prenderci e portarci al pullman. Devo solo portare la valigia giù sul marciapiede, poi è tutto organizzato e non ho bisogno che mi accompagni lei.

L’importanza della famiglia

Natale in famiglia

Il Natale è la festa che preferivo, per anni l’abbiamo trascorso da me perché a me piaceva cucinare; veniva anche mio fratello, i genitori e la zia di mio genero. Poi quando mia figlia si è trasferita a Lesmo andavamo da lei, aveva una villa con una sala molto grande; ognuno di noi preparava qualcosa e si stava in compagnia.

L’ultimo Natale siamo rimasti solo mia figlia Sandra ed io, così siamo andate al ristorante sotto casa mia. Non aveva molto senso mettersi a preparare la cena, lavare i piatti e tutto il resto, invece così trovavamo tutto pronto e forse anche economicamente spendevamo di più a fare la spesa. La Manuela, che vive a Forte dei Marmi era dai suoceri, giustamente, perché ogni tanto deve andare anche da loro, la Marta è andata a trovare il figlio in America. Invece l’anno venturo ci sarà anche il mio pronipote, spero ci saranno anche la Manuela e il Carlo, così saremo di nuovo tutti insieme.

Mi sembrava di sminuire lui

La famiglia è molto importante per me, ho sempre dato alla mia famiglia tutto l’amore che avevo, ho cercato di non far mancare niente a mio marito e mia figlia e dopo alle nipoti e al mio pronipote. Avrei voluto avere altri figli e una famiglia numerosa, ma c’era un problema che non ho mai raccontato neanche a mia figlia. Lei non sa tante cose, non so se per proteggere l’immagine di mio marito, o se per pudore. Anche lei non mi ha mai raccontato le sue cose private, siamo così, è il nostro carattere. Dopo che è nata la bambina, avevo sempre dei problemi, andavo nelle cliniche più rinomate, mi curavano, tornavo a casa, stavo bene per un po’ e dopo 15-20 giorni ero nelle stesse condizioni. Una volta un medico mi disse: “Signora, purtroppo nonostante le cure, lei torna sempre nelle stesse condizioni.” Endometrite, miometrite, perimetrite, avevo tutte le infiammazioni. “Mi porti suo marito, magari facciamo un po’ di esami, può darsi che con una cura riusciamo a risolvere definitivamente. Probabilmente c’è qualcosa che non va per voi due insieme” aggiunse. Per fortuna ero rimasta incinta al primo colpo, perché probabilmente se avessi aspettato un po’ non sarei riuscita neanche ad avere un figlio. Purtroppo, però, mio marito che era un uomo meraviglioso, ma come tutti aveva pregi e difetti, mi disse che lui era sano, la malata ero io e lui non avrebbe fatto alcun esame. Non gliel’ho più chiesto. Lo dissi al ginecologo e lui non ha potuto fare altro che curare me. I primi tempi mi ricoveravano per due, tre settimane e potevo anche riposarmi mentre curavano le infiammazioni, dopo davano solo dei trattamenti da fare a casa ed era faticoso occuparsi della casa mentre non stavo bene.

Mia figlia mi ha sempre rimproverato, convinta che fossi io a non volere altri figli. Non era così, tutti e due volevamo almeno un altro figlio, magari anche altri due, il numero tre sarebbe stato perfetto; anche le mie cognate avevano tutte tre, quattro anche cinque figli, ma il motivo per cui noi non ne avevamo altri non lo dicevo mai a nessuno. Mi sembrava di sminuire lui, ripensandoci adesso però lui non ha fatto una cosa giusta. A quel tempo mi dicevo che non potevo forzarlo se non voleva, ora mi pento di non aver insistito.

É la donna che fa il tutto

A mio parere è la donna che tiene unita la famiglia per il bene dei figli se vuole bene al suo uomo, se poi trova un altro, è la catastrofe. É la donna che fa tutto! Io non ho mai pensato ad altri uomini, c’è sempre qualcuno che si fa avanti, ma basta dire: “No” con fermezza e non ci provano più.

Consiglierei alle coppie e in particolare alle donne di chiudere un occhio talvolta perché bisogna evitare che scattino le scintille per una sciocchezza. La donna fa e disfa la famiglia; la donna si stufa, l’uomo non si stufa mai, l’uomo sta bene anche con un piede in due scarpe, è difficile che l’uomo prenda la decisione di andarsene. Bisogna sopportare per far durare un matrimonio e le donne devono saper essere tolleranti.

Io ho adorato mio marito e lui era un uomo innamoratissimo e possessivo; la possessività è un difetto, è più della gelosia, ero sua e basta, gli dava fastidio anche solo che parlassi con un bambino, io, però, gli sorridevo e continuavo, non me la prendevo. Sapevo che in fondo non era per cattiveria, lui era fatto così, l’ho sposato così; in realtà i primi anni mi faceva piacere, dopo ha iniziato a darmi fastidio, ma ci vuole sopportazione. Bisogna metterci la volontà per portare avanti un matrimonio perché brontolando per ogni inezia non si va da nessuna parte.

Avevo l’esempio dei miei genitori, mio padre aveva il mio carattere, mia madre invece si arrabbiava, urlava sempre con noi, con papà, con tutti. Lui invece era molto buono, sopportava in silenzio, ma alla fine faceva quello che voleva. Ci rideva su e prendeva un po’ in giro mia mamma che sbraitava dicendole: “Ma ce l’hai con me? Con chi ce l’hai che continui a brontolare?” mentre continuava a leggere la Gazzetta dello Sport, oppure si preparava e andava al bar mentre lei borbottava e le diceva: “Dai, cibalgina, basta, vengo a casa a mezzogiorno”. Così facendo hanno trascorso tutta la vita insieme e io ho preso esempio dal mio papà. Capisco che dipende dal carattere, e non tutti riescono a non reagire. Per esempio mio fratello, quello che c’è ancora, ha un po’ il carattere di mia madre, per cui povera moglie!

Non bisogna mai andare a letto senza aver fatto la pace. Quelle poche volte che mio marito ed io non facevamo la pace prima di andare a letto dopo poco eravamo costretti a farlo, perché eravamo abituati a dormire mano nella mano, appiccicati, non riuscivamo a dormire distanti. Era lui il primo ad allungare il piedino, io stavo lì, non mi muovevo, ma non lo rifiutavo, poi arrivava con la mano, mi teneva la mano e alla fine ci abbracciavamo e ci addormentavamo. Facevamo la pace senza fare niente.

Se ci si fa consumare dalla rabbia rinfacciando al marito ciò che ha fatto si va avanti in questo stato per settimane e non va bene. La donna deve essere più paziente, l’uomo vede il rapporto in maniera diversa dalla donna, gli uomini sono diversi dalle donne.

 

Cosi come è successo per il ballo, Adriana ha imparato a rispettare il tempo della vita, superando difficoltà e sofferenza a testa alta e godendosi le gioie con semplicità, e appreso passi nuovi, rubando con gli occhi e accettando con riconoscenza l’aiuto offerto. Il suo carattere, quasi un innato senso del ritmo, l’ha portata ad accettare ed apprezzare le persone con i loro pregi e i difetti come i cambi di armonia nella danza. Non ha potuto selezionare la musica, ma ha scelto i compagni di ballo a cui trasmettere le sue conoscenze e il suo amore donando aiuto, consiglio e supporto.

Il ballo della vita è un omaggio a tutte le donne, figlie, mogli, mamme, zie, nonne e bisnonne che accolgono la vita con un sorriso imparando ed insegnando ad amare ogni giorno un po’ di più.