Daniela ha raccolto la storia di Stella e Paolo, che di strada insieme ne hanno fatta tanta, con il sorriso sulle labbra e la musica nel cuore!

Stella

Si vede la vita che va avanti
Ho fatto questo album per riunire le due famiglie, tutte le foto che ho trovato le ho raccolte qui.
Ci sono le foto dei miei nonni, anche di quando abitavano a Mendrisio in Svizzera, dei genitori della mia nonna, dei genitori di Paolo, e le foto di lui da ragazin, dei suoi fratelli e dei miei fratelli e dei loro figli e dei nostri figli: si vede la vita che va avanti.
Molte di queste foto le ho trovate quando è morta la mia zietta Amalia, erano tutte lì a casa sua.

 

Ecco… Questa per me è una foto molto significativa: frequentavo ancora l’asilo e sono con mia sorella e con mio fratello Alberto di pochi anni più grandi. E tanti anni dopo abbiamo voluto rifare la foto di quando eravamo piccoli, nella stessa posa.

 

 

 

Sono nata alla Baia del Re
Sono nata alla Baia del Re a marzo del 1944, in Via De Sanctis al 34,dove mio padre aveva una ditta di oli lubrificanti. Questa foto l’ha scattata il fotografo famoso che c’era lì in zona. Mi ricordo che si entrava al numero 34 e al primo cortile c’era un grosso falegname, nell’altro c’era l’officina dove riparavano le macchine. C’era la scala, si saliva, il bagno l’avevamo fuori con la vasca e sopra c’erano quattro locali comunicanti. Da una parte della finestra si guardava giù e c’era una ditta, facevano le poltrone per il cinema.
La prima elementare l’ho fatta alla Cesare Battisti, in Via Palmieri. Ricordo che si usciva dal nostro portone, si faceva la via De Sanctis e là sul piazzale incontravamo un panettiere e mia mamma mi comprava sempre la merendina.
Mia mamma era del ‘900. Aveva studiato ragioneria ed era una donna molto intelligente e curiosa. Era molto brava a fare da mangiare, ricordo i Natali soprattutto, le piaceva molto fare il presepe. Ed era molto brava a cucire, ricordo che a mio fratello piaceva giocare a tennis e mia madre gli cuciva i completi.

Si teneva informata leggendo i quotidiani e a casa le arrivava Selezione. Le piaceva andare in montagna e mi meravigliavo di come conoscesse tutte le piante e tutte le erbe. Quando è rimasta vedova nel ’45 ha dovuto cominciare a lavorare.

Nel ‘50 ci siamo trasferiti a San Siro In via Zamagna, mia mamma era rimasta vedova con quattro figli già da cinque anni e ci avevano assegnato la casa.
Sono sempre stata un tipo piuttosto malaticcio perciò soprattutto in inverno non ero mai a casa, mi mandavano alla colonia di cui si occupava il comune di Milano.
Tutti gli inverni li facevo via perché avevo sempre la bronchite e pure qualche cosa al cuore che però non sapevo di avere. L’ho saputo molti anni dopo. Pensando e ripensando a tante cose però ricordo che andavo in colonia e non mi lasciavano entrare in acqua, non mi facevano fare passeggiate lunghe… e da lì ho dedotto che probabilmente c’era qualche cosa.
A San Siro ho frequentato la scuola elementare di Via Paravia. Era bella, si entrava e c’erano una aiuola bella grande e la madonnina. Mi trovavo bene, solo che anche da bambina ho sempre sofferto tanto il mal di testa, perciò tante volte capivano che non stavo bene e allora mi prendevano e mi portavano a casa.
Si andava lì al mattino e stavamo lì anche il pomeriggio: ricordo che magari mi davano da mangiare e portavo a casa alla mia mamma sempre qualcosa, o la frutta o il formaggino. Perché lei lavorava sempre, poverina, ha sempre lavorato tantissimo, poi da quando era rimasta vedova doveva prendersi cura da sola di tutti noi.
Mia mamma tutti i giorni leggeva il giornale, il Corriere della sera e il Corriere dell’informazione: ci mandava in Via Selinunte dove c’era l’edicola. Già in via de Sanctis avevamo il telefono e anche la radio era sempre accesa. Mi venivano di quei mal di pancia, quando ascoltavo le brutte notizie: tra queste ricordo il naufragio dell’Andrea Doria.
Mia mamma per andare al lavoro da via Zamagna prendeva la filovia in piazzale Zavattari e scendeva in piazza Lodi, era un bel tocc, era un bel pezzo da fare. La sera poi io e mia sorella andavamo a prenderla in Zavattari, chè mio fratello lavorava, era un ragazzino e faceva il lattoniere, il fabbro.  Poi mi ricordo sempre lì in Zamagna, di mio fratello maggiore che era già grande, andava a ballare, aveva il giradischi e ascoltava Elvis Presley.

Mi ricordo che in Zamagna la prima macchina l’ha avuta il mio vicino di casa, che era stato prigioniero nei campi di concentramento.

La seconda macchina è stata quella del mio fratello maggiore che faceva il rappresentante per una cartiera.

Altrimenti di macchine non ce ne erano…
Ai tempi c’era ancora l’Olona scoperto. E si faceva un bel pezzo a piedi per arrivare a casa dalla piazza Zavattari. Dopo ha iniziato a lavorare a casa poverina e me la ricordo sempre con questo mal di testa anche lei, eppure lavorava giorno e notte, faceva i portacipria e i rossetti per una ditta importante, a qualsiasi ora mi svegliavo la trovavo lì a lavorare a lavorare a lavorare…
Avevo tredici anni, quando ho perso la mia mamma: ero rimasta in colonia sei mesi invece che tre perché mia mamma doveva essere operata. Quando sono tornata alla stazione centrale venne mio fratello a prendermi e lì ho capito che la mamma non c’era più.

 

Il periodo in collegio
Nel ’57 poi i miei fratelli si sono ammalati tutti di tubercolosi, e furono messi in sanatorio. I due fratelli assieme a Garbagnate, e mia sorella verso Capriate in un altro sanatorio.
A me hanno dovuto mettermi in un collegio e là sono rimasta sola cinque anni: quanto piangere che ho fatto.

Questo istituto era un istituto parificato, c’era gente che arrivava da tutta la vallata. Ce n’erano diversi di ragazze e ragazzi di San Pellegrino, figli di dottori e professionisti.

L’unica del parentado che è venuta a trovarmi è stata la mia zietta, la sorella della mia nonna, che era già anziana: ho chiamato mia figlia col suo nome, Eleonora Amalia.

Anche l’anno in cui è mancata la mia mamma, durante la permanenza in colonia a Spotorno, era l’unica che era venuta a trovarmi.

Per arrivare al collegio da Milano aveva dovuto prendere il pullman in piazza Castello, arrivare a Bergamo, prendere l’altro pullman per arrivare su a Montepietra: da lì c’era una salita da fare, tutta sassi che arrivava su in collegio a Cepino.

Il collegio per me è stato difficile, ma c’erano delle suore che mi volevano bene. Nel ‘57 nel collegio erano tutti a letto con l’asiatica che era stata una cosa infernale, e poi là in montagna faceva molto freddo. Nel dormitorio che era uno stanzone enorme, sui vetri all’interno si formava il ghiaccio perché fuori era gelato e c’era umidità, di modo che al mattino quando volevo veder fuori dovevo togliere il ghiaccio dal vetro. Di notte avevo freddo ai piedi e suor Giulia mi preparava la boule dell’acqua calda, perché se non avevo i piedi caldi non riuscivo a dormire.

Mentre invece altre suore mi facevano sgobbare. Dovevo guardare la portineria, rispondere al telefono, ricevere chi suonava il campanello in segreteria, preparare la saletta per i professori quando si fermavano a mangiare; la cucina era due tre piani sotto e dovevo portare avanti e indietro il cibo. Poi c’è stato un momento in cui una suora si è offerta di farci la scuola di taglio e cucito e me l’han lasciato fare. Da lì è nata la passione per il cucito, la mia zietta poi mi ha regalato la macchina da cucire. Proprio stamattina stavo facendo modello per l’abito per la mia futura nuora…

Il Comune di Milano mi aveva mandato su per motivi di salute e siccome fino ai diciotto anni ho percepito la pensione di mio papà dato che ero minorenne, il Comune dava la differenza per coprire la mia retta, di modo che non è che mi tenessero lì a gratis, la mia quota la pagavo. Però mi facevano sgobbare… Ognuno di noi aveva le sue mansioni e a turni c’era chi faceva le pulizie nelle camerate, o giù in refettorio, a turno si lavavano i piatti, chi li lavava chi li asciugava. Ma soprattutto suor Stefania quando toccava a lei il turno dei piatti delle suore, mi chiamava sempre: dovevo fare il suo bucato personale, stirare i suoi panni e smacchiarli… E poi ricordo che c’era un’altra una suora che in tempo di guerra era stata partigiana, era brava però anche lei poverina era ammalata.
In collegio c’era solo fino alla terza media, ma sono rimasta fino ai 18 anni e ho studiato segretaria di azienda, dattilo-stenografia. Tra le amicizie dell’adolescenza ricordo in particolare Sandra, una compagna con cui sono stata molto amica. Il suo papà aveva una ditta di stoffa, erano persone molto benestanti. Quando c’era accesso ai parenti loro erano sempre lì e la portavano fuori a mangiare. Si faceva portare le sigarette, le Turmac bianche e si andava su in soffitta a fumare, tutte queste stupidaggini qui…

Quando sono venuta via ho fatto il voto al santuario di Cornabusa di andare su tutti gli anni. In realtà a pensarci meglio il voto l’avevo fatto per mio figlio, però già da prima di abitudine andavo su tutti gli anni a vedere quel posto. Durante gli anni del collegio quando ero promossa facevo scalza tutta la mulattiera, quattordici cappelle. Cornabusa che tradotto dal dialetto significa grotta buca è un bel santuario, c’è una grotta bella profonda, infatti. Nel ‘400 nella grotta è apparsa questa madonnina e noi dell’istituto alle festività importanti si andava su per la messa.

 

Il ritorno a Milano e i primi lavori
A 18 sono andata a lavorare in un ufficio legale da un avvocato che era un civilista. Forse era la scuola che mi aveva mandato dall’avvocato in via Dante, che dava proprio su Cordusio: ci arrivavo col 15 da viale Zamagna. Tutte le mattine dovevo andare al Palazzo di Giustizia, in cancelleria, a far tutto quello che c’era da fare.

Ma lì sono stata poco perché poi il suocero di mio fratello che lavorava in Sigurtà ha parlato al dottor Cesare e hanno voluto che lasciassi il lavoro all’ufficio legale perché prendevo proprio pochissimo…  prendevo 10.000 lire al mese e in più dovevo pagare io tutti i francobolli senza rimborso. Mi lasciavano 500 lire di mancia per prendere le calze, per comperare quello che mi necessitava e tutto il resto lo davo in casa.
Mio fratello e mia sorella poi a mano a mano si sono sposati. Ad aprile del ’60 si è sposato mio fratello a settembre del ‘60 si è sposata mia sorella che aveva 18 anni.

 

Il lavoro in Sigurtà e l’incontro con Paolo

La Sigurtà era una società di utensileria meccanica ferramenta e casalinghi.

Sono entrata come impiegata e all’inizio battevo le fatture, allora si faceva tutto a mano: il negozio aveva l’entrata al Carrobbio mentre l’ufficio aveva l’entrata in Porta ticinese al 2.
Dopo invece mi hanno spostato alla vendita per le imprese, che arrivavano al magazzino e facevano l’ordine: lavoravo nell’ufficio vendita e dovevo battere le fatture e i pagamenti.
Dato che ero entrata in Sigurtà  tramite il suocero di mio fratello, eravamo colleghi e a mezzogiorno andavo a casa sua a  mangiare con la Lambretta.

Alla sera quando uscivo dal lavoro per prendere il 15 per tornare a casa, ricordo che li in mezzo a Porta Ticinese arrivava sempre il calciatore Mario Corso con la sua cabrio rossa.
Io e Paolo ci siamo conosciuti in Sigurtà. lui era commesso e poi ha fatto il rappresentante.

Sono entrata a gennaio del ’62 e abbiamo cominciato a frequentarci a maggio del ’62. Ci siamo frequentati due anni, poi io ero rimasta sola nella casa di via Zamagna e allora abbiamo detto: sposiamoci!

Al momento la casa l’abbiamo tenuta cosi poi quando è nata la bambina avevo l’esigenza dell’acqua calda, e abbiamo fatto mettere lo scaldabagno. Insomma abbiamo fatto i nostri debiti ma siamo andati avanti sempre abbastanza bene. Poi dato che alla Sigurtà non tenevano le coppie, quando ci siamo sposati mi hanno raccomandata alla segreteria della Standa e lì ho lavorato fino alla nascita della mia prima figlia.

 

Tu che mi hai preso il cuor

Al primo appuntamento mi ha invitato al cinema: siamo andati al Gloria a vedere La carica dei 101 .Ricordo che quando eravamo morosi siamo andati anche al Ducale a vedere El Cid, il film con Charlton Heston e la Sophia Loren.

 

Non avevamo la macchina ed era sempre un gran camminare a piedi…

Stavano costruendo i palazzi dove c’è il cavallo di Leonardo da Vinci e inizia quel viale lungo che porta fino a Piazzale Lotto. C’era un barettino vicino a Piazzale Lotto e noi si andava lì a mangiare il gelato e a bere il caffè e davanti c’era questo benzinaio a cui poi hanno fatto una rapina.

Insomma, lungo tutto quel viale lui cantava… E la nostra canzone era Tu che m’hai preso il cuor!

Tu che m’hai preso il cuor
sarai per me il solo amor
no, non ti scorderò
vivrò per te
ti sognerò
Te o nessuna mai più

Anche quando andavamo a Foppolo sulla seggiovia me la cantava…

 

La zietta Amalia

E’ stata l’unica zia che si era interessata a me con tutto lo sfacelo che ho avuto.

Era la mia prozia in realtà, la sorella della mia nonna ed è stata l’unica che ha cercato di aiutarmi.

E sì che mia mamma aveva due fratelli e una sorella… Era un donnettino, era stata istitutrice, insegnava ai bambini. E’ stata  anche l’istitutrice di un figlio dei Ricordi.

E poi ha fatto tanti altri lavori.
Era un donnetin piccinin, c’ho una sua foto scattata all’isola del Giglio del 1918, tutta agghindata, che allora si usavano le polacchette.
Non si è mai sposata: aveva avuto una figlia da un militare, ma ha dovuto affidarla a una balia, c’era la guerra e lei doveva lavorare. La mia zietta ci ha sempre aiutato finché ha vissuto: quando ero gravida di Eleonora mi ha regalato la macchina da cucire, l’aveva presa nel negozio della Singer, e quando è nato il Ruggero nel ’68 mi ha regalato la lavatrice.

Era una donna molto in gamba e indipendente, ricordo che la domenica faceva dei bei giri, andava alla Motta e all’Alemagna.

Da San Siro al Gallaratese
Nel palazzo in via Zamagna ci si conosceva tutti eravamo in quattro su un piano, era un’altra cosa, perciò siamo cresciuti tutti insieme. C’erano quattro piani di fare, quelle scalinate lunghe, non c’era l’ascensore. Poi la gente di là di San Siro si è tutta trasferita di qua, perché molti hanno avuto bisogno di una casa più grande. Era proprio diverso da adesso!

Sono andata via da San Siro malvolentieri, anche perché qui erano gli anni che c’era una nebbia…
Non guidavo, allora non avevo ancora la patente, c’era qui il capolinea.
Là quando uscivo di casa avevo i negozi, avevo tutto, la scuola era vicina, il medico era vicino e la mia zietta mi aiutava.

Qui al Gallaratese purtroppo era un po’ limitante all’inizio, l’unico super mercatino era lì in fondo.
Poi però ho preso la patente e sono stata ben felice di essere venuta qui, il quartiere adagio adagio è cambiato ed è diventato un bel quartiere, tanto verde, tante belle cose. L’unica cosa che c’è è che ogni tanto ci sono dei miasmi. Dicono che non è l’inceneritore, non so se sia qualche fabbrica… Ma non sarà mai come i primi anni che eravamo qua che c’erano le raffinerie a Rho e a Pero e c’era una nebbia qui che era una cosa incredibile, c’era l’Olona scoperto.

Qui davanti però c’era il parco, la Falk aveva lasciato tutto il terreno a Don Abramo.

C’era la nostra chiesina e infatti la comunione e la cresima i ragazzi l’hanno fatta qua. Un bel parco, quando era aperto al pubblico c’era la piscina e il campo da football. Nell’orario di pausa con i bambini nella bella stagione si andava.

Poi nell’84-85 hanno cominciato a costruire e il parco è diventata una proprietà privata.
Prima quando mio nipote (che ora ha 21 anni) era piccolo si andava giù ed era bellissimo, c’era una fattoria, in fondo alla rimessa della metropolitana, e c’erano dentro i pavoni, volavano sopra gli alberi e sembravano stracci appesi ai rami.

C’erano le panchine, le fontanelle, c’era chi aveva l’orticello nel parco. C’erano caprette, i galli giapponesi, c’era la vaschetta con i pesciolini rossi, con dentro le tartarughe di terra, le tartarughe di acqua.

 

 

 

Quanto giocare, quanto scherzare!

Il primo nipote l’abbiamo cresciuto noi, l’abbiamo portato dappertutto come se fosse nostro e guarda, fino al 2015 lui finita la scuola veniva qui da noi.

Mamma mia, quanto giocare, quanto scherzare!

Anche con i miei figli ho giocato tanto, con Eleonora poi che era la prima non lavoravo e cosa non abbiamo fatto insieme, col secondo forse ho giocato un po’ meno perché c’era anche l’altra figlia a cui badare. Con il nipote figuriamoci, eravamo adulti.

Ti dico che persino ho imparato a nuotare per poterlo portare al mare ed essere sicura che non succedesse niente. Oppure quando eravamo in montagna a Piazzatorre, un paese che è tutto in salita, tutte le mattine col passeggino arrivavamo su in cima fino al palazzo del ghiaccio, che c’era un dislivello da 1100 a 1800 metri, perché prima del palazzo avevano fatto una villa e lì c’erano i daini e allora col bambino piccolino e con le carote andavamo lì chè lui si divertiva. E poi ridiscendevo con il mio passeggino, tutte le mattine.

E quando eravamo a Gabicce andavano a pescare lui e il nonno, a prendere i cavedani e una volta sono arrivati i carabinieri perché Paolo non sapeva che si non si poteva pescare nel porto in mezzo alle barche. E poi a Riva Ligure andavamo in spiaggia alla mattina presto, l’acqua era trasparente e i vedevano i gruppetti di pesci e lui era tutto contento.

 

Il quartiere ieri e oggi

Mio fratello, da bambino da San Siro veniva qui in bicicletta: erano tutti prati e campi e veniva a raccogliere la camomilla.

E mi dicevano gli amici di Branzi, nella Val Brembana, che loro all’epoca scendevano col bestiame in autunno, a pascolare le pecore, per la transumanza. E questo abbiamo fatto tempo a vederlo anche noi.

Prima c’era molto meno traffico, meno baccano.

Il boom è stato dal 2000 in poi, il quartiere è migliorato molto.

Per le amicizie, ho notato che adesso che siamo anziani c’è molto affiatamento soprattutto qui nel palazzo, siamo cresciuti tutti assieme e ci si aiuta molto tra di noi se c’è bisogno. E’ bello anche di estate, c’è una panchina e si sta giù a chiacchierare.

L’unica cosa che proprio mi ha dato fastidio è che prima che costruissero le altre case qui c’era un giardino bellissimo, c’erano i melograni, le rose, curate dai condomini.

 

A casa… 

Mi piace imbiancare, l’ultima volta ho imbiancato nel 2005 con una vernice che si può lavare.
In casa ho fatto tutto io: tende, tendine , copriletto, lenzuola. Ho foderato le poltrone, perché sono in pelle.
Poi mi piace fare i vestitini a mia figlia, a mia cognata, mi piace la bigiotteria.
Non sono mai inattiva, trovo sempre qualcosa da fare o da trasformare, come questo portasigarette degli anni quaranta che ora è un portafoto.

 

 

 

Se guardo dalla cima ad una montagna la mia storia vedo…

Vedo i miei figli, Eleonora e Ruggero, e i miei nipoti, Edoardo che ora ha 21 anni e il piccolo di 6 anni, Samuele.La voglia di vivere che ti dà vedere loro andare avanti, progredire, vederli che si fanno una posizione.

Perché io penso che nella vita si debba adagio adagio ma sempre migliorare, cercare qualcosa di meglio di quello che si ha e di come si vive. Nella vita bisogna cercare di accettare tutto: se si accetta si riesce a trovare se non una soluzione almeno il modo migliore per far fronte alle difficoltà. Perché se dobbiamo fare un dramma di tutte le cose, guai!

Nonostante gli acciacchi cerco di tenermi sempre attiva. Perché essere attivi tiene anche la testa occupata, è inutile stare lì a piangersi addosso. Quante volte tra di noi ci prendiamo in giro! Lui è un tipo allegro, un bel carattere, non è uno che tiene il muso.

 

A un giovane dico: bisogna essere umili nella vita, cercare sempre di andare avanti e di migliorarsi.

Ti racconto un aneddoto: quando mio figlio tornava a casa dal militare, buttava tutto lì, maglietta, pantaloni, tutto. Mi diceva, sei a casa a far niente tutto il giorno e c’è la lavatrice, puoi occupartene benissimo tu… Allora gli avevo detto: d’ora in poi ti lavo tutto ma quelle cose te le stiri tu. Insomma mi sono messa lì e l’ho fatto stirare: e ha imparato bene… precisissimo, perfetto! E la moglie è felicissima.

E poi quando i miei figli hanno iniziato a lavorare ho detto loro di collaborare: in casa davano qualche cosa così quando si sono sposati hanno trovato qualcosina.

E invece adesso lo stipendio va direttamente in banca e dico io: ma che educazione è, non è giusto. I ragazzi devono capire il sacrificio che si deve fare per avere le cose nella vita, non pretendere e basta: le cose più belle, le cose firmate. Un conto è accontentare un pochettino, ma non in tutto. Bisogna comprendere i sacrifici che bisogna fare nella vita.

 

Paolo

 

Sono nato nel ‘37, in Via Tibaldi.

Quando ero piccolino sono tanti gli episodi che ricordo legati alla guerra. Ricordo soprattutto quando suonava l’allarme, si andava nel cortile e poi si andava tutti in cantina, fino a che non finiva, c’era tanta gente.

Un’altra cosa che mi ricordo è quando hanno bombardato la via Brunacci, avevo 7 anni: c’era un portone grandissimo e da sotto, da una porta più piccola abbiamo visto gli aeroplani arrivare. Nel ‘44 poi ebbe grande risonanza quando hanno fucilato dei ragazzi partigiani in via Tibaldi, dove ora c’è la lapide commemorativa.

Mio padre lavorava al burro Gallone; durante la guerra era stato arruolato per un periodo e mia mamma si è occupata di noi tre figli mentre lui era via e ha lavorato, faceva le etichette, le scatolette.
Poi ricordo bene il tragitto per andare dalla nonna: prendevamo il tram in Porta ticinese per andare verso Corsico, non il gamb de legn, mia nonna abitava a Molino della Paglia.

Il tram arrivava al “cavum”, lo chiamavamo così, poi andavamo a piedi, lì c’era il naviglio.

Stavo lì perché mia mamma lavorava anche una settimana, due settimane di seguito, e mi divertivo a stare lì con mio fratello e mio cugino, il Luciano e l’Eliseo. Mia nonna aveva un pavimento con questi piastrelloni di mattone rosso pomodoro, abitava in una casa di ringhiera di due stanze.  Dove dormivamo noi, c’era la grata, e da lì quando ero ragazzino si vedevano ancora i cannoni dei tedeschi nel prato.

Andavamo a raccogliere il granoturco e di sera andavamo dal “Barun” che aveva le bestie, a pelare e a mangiare il granoturco.

C’erano tutte le signore anziane che raccontavano le storie.

Poi nel ’50-’51 sono andato a fare la scuola di avviamento al lavoro. Per andare a scuola in Via Giulio Romano, partivo dalla via Tibaldi alla mattina con la schiscetta di “due piani” che mi preparava mia mamma. Sotto potevano esserci ad esempio spinaci e patate quelle arrostite e sopra le polpette. Partivo da lì a piedi, passavo tutto il parco Ravizza, e poi arrivavo alla scuola verso Corso Lodi.  Quattro volte al giorno, quater volte al dì, sotto l’acqua, sotto la neve.
A me sinceramente non piaceva fare l’avviamento al lavoro, non volevo farlo: mi davano un pezzo di ferro, poi mi davano un martello e tum tum facevo i buchi su ‘sto ferro. Poi avevamo una lima e dovevamo tirarla piatta, ma non sono mai stato capace. Mi ricordo che c’era un insegnante che col dito così, con la nocca con la punta ti dava un colpetto e ti faceva un male… Poi c’era un altro insegnante che chiamavamo Geppetto che ci dava da farci croci di legno, non mi piaceva e infatti a me mi han bocciato in ferro e legno!
Della strada in cui abitavo ricordo che c’era il ciabattino al numero 18, poi il salumiere, e mia madre mi mandava: “Paolo vai a prendere un etto di crudo”. A fianco c’era il panettiere e oltre una tipografia.

Ricordo un sacco di giochi che facevamo a quei tempi: giocavamo a carte, c’era il butta giò, ghera il ciapa sì ciapa no e poi c’erano ciapa vun ciapa du tri ciapa quater… Si giocava in strada chè macchine non ce ne erano
Poi c’era un bar e ci trovavamo alla sera a giocare a boccette o al calcetto e c’erano lì tanti ragazzi. A biliardo non sono mai stato capace. Altrimenti si giocava a carte, al ciama el du, sette e mes, scopa, scopone.

 

Il primo giorno d lavoro
Mi ricordo che avevo 14 anni e sono andato a Gorla, ora la via precisa non la ricordo, mi aveva messo lì mio papà tramite una sua cugina che conosceva il padrone. Facevano l’involucro dei motori elettrici e stavo seduto su uno sgabello a lavorare il ferro, tranciavo le lamiere, era un po’ pericoloso.

Poi avrò avuto 16 o 17 anni e sono andato a lavorare dall’Anzeni in Viale Liguria, dove facevano sempre i motori elettrici e le matasse. Per lavoro usavo il triciclo col cassone davanti e col peso dietro dovevo stare attendo sulle salite…

Mi ricordo che ero andato lì a presentarmi e non mi avevano preso. Poi mia mamma è andata dal prete Maderna le ha spiegato tutto e dopo mi hanno preso.

E poi sono andato a lavorare alla Sigurtà, sempre grazie all’aiuto del prete.

 

La  passione per la lirica e per gli oggetti antichi
Ho cominciato a cantare perché avevo una voce abbastanza bella, allora sono andato a scuola Civica e avevo come insegnante Nino Piccaluga, un tenore importante, che poi mi voleva portare in America a fare la Tosca nel ‘60, ma non per la parte principale: lui mi disse “se vieni insieme a me ti faccio fare il secondario”, terziaro anche!

Mi è sempre piaciuta l’opera, avrò di là 500 cassette e cd e poi anche quelle registrate, 78 giri, 33 giri… Ho cominciato a cantare e ad andare nei boschi, anche mio padre e mio zio cantavano. La prossima settimana andiamo a vedere un film documentario sulla vita della Callas, ha preso i biglietti mio figlio.

Ho cantato l’Ave Maria al matrimonio del figlio della mia vicina, la Loredana.
Quindici giorni fa siamo andati in chiesa a prendere le palme, perché Stella si chiama anche Palmira, sinceramente era da tanto che non andavo, finita la messa mi sono messo a cantare. Mi piacerebbe andare una volta nella mia vita sul palco della Scala…
Quando abbiamo fatto il cinquantesimo siamo andati a Roma a Castel Santangelo e sul ponte ha cantato “Lucean le stelle”. Tutti gli stranieri e i turisti si sono fermati ad ascoltare: avranno pensato questo qui è matto, ha bevuto… c’è stato un grande applauso alla fine!

 

Adesso ho perso un po’ di voce. Ma ogni tanto gli amici della montagna di Branzi mi mandano dei messaggi, “Paolo sei un mostro!”, perché hanno visto su facebook un pezzettino di me che canto, che ha messo su la Iris… Ma io posso cantare pure adesso non ho problemi!

Nessun dorma! Nessun dorma! Tu pure, o Principessa,
nella tua fredda stanza
guardi le stelle
che tremano d’amore e di speranza…

E poi…

La donna è mobile
Qual piuma al vento
Muta d’accento
E di pensiero
Sempre un amabile
Leggiadro viso
In pianto o in riso
È menzognero

E quando si fanno i brindisi

Viva il vino spumeggiante
Nel bicchiere scintillante,
Come il riso dell’amante
Mite infonde il giubilo!

Avevo già da ragazzo la passione degli orologi, gli avori, i bronzi, già da quando lavoravo in Sigurtà, ma non avendo la licenza mi appoggiavo ad alcuni amici all’inizio: mi mandavano in giro a cercare orologi, sterline.

Poi io e Stella abbiamo preso due licenze, siamo andati alla scuola professionale in Viale Murillo.

E prima di avere i figli andavamo spesso insieme a Parigi al mercatino delle pulci, ma anche in giro per l’Italia: si scendeva a Gare de Lion e c’era un albergo il Riviera. La metropolitana parigina era già favolosa negli anni ’70, si partiva alle 11 col treno Tgv da Milano e alle 6 eravamo a Parigi.

Dopo la Sigurtà quindi ho cominciato a fare il rigattiere, a comperare al mercato delle pulci e a vendere alle fiere.

Tutte le cose che si prendevano si riuscivamo a vendere subito: miniature, chine, ricami, bassorilievi, cristi di avorio, marmi, ventagli, orologi da tasca e parigine, che sono orologi antichi da camino in bronzo dorato.

Facevamo la fiera degli O bej O bej, in via Necchi oppure in via Mascheroni. Si conoscevano tante persone, professori universitari e appassionati di oggetti antichi e di orologi. Per me era più bello trovare gli oggetti che venderli. Stella mi diceva, la febbre del possesso! Abbiamo sempre venduto, mi accontentavo di poco per far girare la roba, se no magari dopo restava lì.

 

Una persona che ho incontrato e ammirato molto facendo questo lavoro è il dottor Saitz.

Era un profugo proveniente dall’Istria, dove era proprietario di alberghi. Si sono trasferiti in corso di Porta Romana e aveva un negozietto di cose antiche, katane giapponesi, bronzi, avori bellissimi: era un uomo che sapeva di tutto, teneva conferenze. Una persona molto intelligente, aveva una grande cultura in particolare di Giappone e Cina.

 

Anche nostro figlio Ruggero poi si è appassionato a questo mondo e per un periodo ha fatto il cesellatore e l’argentiere. Ha fatto il corso in Viale Murillo dove c’era proprio la scuola per orafi e argentieri. Ha imparato a sbalzare (lavorare l’argento con figure in rilievo) e ha cominciato a lavorare presso uno scultore. Poi mi ha seguito nelle fiere, bisognava alzarsi la mattina molto presto, erano faticose.

 

A casa…

Io mi alzo la mattina e faccio il caffè, poi mi metto di là e sento le opere, oppure guardo i miei orologi e se dobbiamo andare fuori per far la spesa o altro andiamo fuori.

Per me un luogo del cuore del quartiere è l ‘auditorium sopra la biblioteca, e anche quello nella scuola dove hanno fatto la Traviata. Entravano i tenori dai lati, che ci sono i tendoni alti. E nell’auditorium del centro civico ha suonato mio figlio Ruggero con la sua orchestrina, lui suona la batteria.

 

A un giovane dico

Di cercare di non commettere errori e di non credere che la vita è facilissima.

Se devono cominciare dall’inizio è molto difficile e ci vuole umiltà.