Arrivo dopo diverse peripezie in fondo al Giambellino, un quartiere periferico reso ancor più inaccessibile dai lavori della metropolitana. Giunto davanti al cancello la chiamo come d’accordo. Mi dice “fermati davanti alla Madonna”, lo faccio e, nell’attesa del suo arrivo, penso che la statuetta sia stata messa lì a custodia di un cortile che, se non fosse per la luce che la illumina, sarebbe semi buio. In fondo al vialetto intravvedo la sagoma di una donna minuta dal passo svelto, un po’ricurva per non far cadere il cappotto appoggiato sulle spalle. Arriva nel cono di luce della piccola edicola, alza la testa e due occhi sorridenti mi chiedono “Corrado?” ed io, corrispondendo al suo sorriso, esclamo “Annamaria!!!!”.
Ci stacchiamo dalla Madonna e la seguo sul vialetto semibuio. Camminando mi racconta che in quel cortile lei si sente a casa, si sente sicura, a suo agio. Incontriamo un gruppetto di ragazzi che la salutano e percepisco chiaramente che tra loro c’è un legame, una simpatia. Si infila in un portoncino, saliamo una rampa di cinque scalini e arriviamo ad una porta spalancata su un minuscolo appartamento. Annamaria, prima di entrare, si gira verso di me e mi accoglie di nuovo con il suo sorriso “Questa è casa mia, accomodati dove vuoi”. In verità lo spazio è talmente piccolo che non ho molta scelta, capisco che è contenta di avermi lì, me lo dicono i suoi occhi.
Un’infanzia felice scandita dai giochi in cortile
Vivevo a Milano in via Tracia, il cortile era il mio campo da giochi, ci passavo tutte le ore libere, a volte scoppiavano risse tra maschi e femmine che puntualmente ne innescavano altre tra i genitori, ma poi tutto tornava alla normalità e si tornava a fare di nuovo gli stessi giochi di poco prima.
Ho un ricordo felice di quegli anni a tal punto che evito di tornarci per non farmi prendere da una malinconica nostalgia.
Mi sono sentita molto amata dai genitori. Mio padre, avellinese, si trasferì a Trento da uno zio per studiare e diventare Carabiniere. Lo zio, a Trento, aveva messo in piedi una attività legata al commercio di vini che faceva arrivare dalla Campania. Ai tempi l’avversione nei confronti dei meridionali era tremenda, si trovò ad essere ostacolato fino ad arrivare al fallimento. Fu costretto ad abbandonare Trento e trovò ospitalità a casa nostra.
A quei tempi era normale che la casa di chi si era trasferito al nord e si era sistemato funzionasse da base per accoglienza di parenti che cercavano di costruirsi un futuro (un po’come i migranti di oggi).
Tornando allo zio e al primo dolore legato a quel ricordo, ho ancora viva nella memoria la disgrazia che lo colpì: una notte, di servizio all’idroscalo, morì in un incidente. Alcuni anni dopo il figlio, che aveva studiato ed era tornato a Trento, fece purtroppo la stessa fine, morendo in un incidente mentre consegnava i medicinali alle famiglie bisognose.
La mia mamma, anch’essa casertana, non aveva potuto studiare, ma era dotata di una grande intelligenza. Considerava lo studio un’esperienza fondamentale per la vita delle persone. Erano tempi in cui i figli dei meridionali proseguivano gli studi, mentre qui al nord i ragazzi venivano orientati all’avviamento professionale, privilegiando una scelta che nel breve periodo avrebbe garantito un posto di lavoro. Se ho proseguito negli studi lo devo soprattutto alla mamma.
Nella scala della casa dell’infanzia solo in tre siamo riuscite a studiare. Mia madre doveva seguire sempre mio fratello perché da solo non riusciva a fare i compiti, come tutti i maschi, mentre io me la cavavo anche senza aiuto. Oggi sembra esserci un ritorno di quella concezione che non riconosce allo studio un valore proprio ma come uno strumento che permette di realizzare profitto.
Io volevo fare il Liceo Classico ma sono stata indirizzata a Ragioneria perché garantiva più opportunità. Terminate le superiori, grazie ad un tema, sono stata accettata alla Bocconi dove ho frequentato la Facoltà di Lingue Straniere. Devo ringraziare i miei genitori per questa opportunità, anche se io ho sempre cercato di darmi da fare, lavorando per la Motta Alemagna tutte le volte che c’era l’opportunità, in particolare a Natale e Pasqua quando c’erano i picchi di produzione. Il lavoro mi faceva sentire autonoma. Alla Bocconi non c’erano molti studenti iscritti ai corsi di spagnolo (lingua in cui mi sono laureata); in generale eravamo in pochi, a quei tempi, a studiare le lingue. Alla fine degli studi mi proposero di insegnare francese agli avvocati. Vado a Napoli in occasione del terremoto dell’80. Frequento un corso biennale per l’insegnamento ai non vedenti, scopro e mi innamoro del mondo della disabilità. Tornata a Milano non ho più lasciato l’insegnamento, privilegiando gli incarichi di sostegno. E’ divenuta la mia “missione”, la mia identità personale si è fusa con l’insegnamento. Ricordo nomi e storie dei miei alunni come se fossero accadute ieri. Ho in mente per esempio Michele: le suore non volevano portarlo in vacanza perché ritenevano fosse molto faticoso; mi sono impuntata e me lo sono caricato in termini di responsabilità e così ha potuto fare la vacanza insieme ai suoi compagni. Un giorno insegnavo ai ragazzi ad attraversare la strada, scatta il verde, dico “possiamo andare”, una macchina che aveva il semaforo verde decide di svoltare schivando i ragazzi, io da dietro grido “disgraziato” e i ragazzi, pensando fosse rivolto a loro, si impiantano a metà strada! C’è voluta una bella pazienza per farli riprendere a camminare in mezzo all’ingorgo che nel frattempo si era creato. Ero giovane e piena di energia; li portavo ovunque e loro mi restituivano una grande gioia e il senso della vita.
Ho scelto di vivere da sola perché…
Non so se ho scelto di vivere da sola, sta di fatto che mi sono dedicata completamente all’insegnamento dei disabili. Nei corsi di aggiornamento per il sostegno c’erano dei giochi di ruolo bellissimi e molto efficaci. In uno di questi, per esempio, dovevamo vestire i panni di un personaggio immaginario. Ricordo che mi vestivo da indiana dell’India, un paese lontanissimo, e che, per un motivo o per l’altro, non sceglieva mai nessuno. Un altro gioco era quello del naufrago (è pazzesco come mi immergevo in queste simulazioni) che nuotava verso riva e che una volta in salvo si adoperava per aiutare chi fosse più indietro. Io arrivata a terra non aiutavo nessuno, non avevo il coraggio di salvare nessuno. L’insegnante mi diceva sempre che avrei trovato una scusa qualunque pur di stare da sola. Ero convinta che la scelta di vivere con una persona dovesse basarsi sull’autenticità e che la persona dovesse essere qualcuno con cui valesse davvero la pena di stare fino in fondo.
Forse una volta l’ho incontrata, ma poi ho trovato una scusa per non approfondire.
Credo avesse ragione la mia insegnante dei corsi di Baggio quando diceva “troverai sempre un buon motivo per stare da sola”. Di fatto poi non sono mai stata sola, i ragazzi hanno sempre riempito la mia vita. Mi fanno molta compagnia, sono la mia compagnia.
(Il biografo: ancora oggi la sua casa è tutta un via e vai di ragazzini che hanno bisogno di sostegno negli studi, lei per il cortile è la maestra. Si telefona e si prende appuntamento perché le richieste sono molte e bisogna organizzarsi).
Un personale percorso di fede
Ho sempre avuto un carattere particolare (sono del segno dello Scorpione). Sin da giovane ho rifiutato quelle cose che andavano fatte per dovere, per consuetudine. Allora, l’appartenenza religiosa mi veniva richiesta con l’adesione ad una ritualità di cui non rintracciavo il senso; per cui a 15 anni decisi di non frequentare più la Chiesa.
Tra l’altro, in quel periodo, mi capitò di rielaborare episodi che avevo vissuto a 7 anni, in occasione della prima confessione, quando un padre, che poi fu allontanato, mi chiedeva di fare cose di cui allora non mi rendevo neppure conto.
Ci fu poi un altro episodio che produsse un ulteriore allontanamento. Questo si verificò più avanti relativamente all’opportunità di partecipare, in Germania, ad un corso di perfezionamento della lingua tedesca. Vi si accedeva attraverso un colloquio con le suore nel corso del quale dissi di non frequentare la Chiesa. Fui selezionata comunque e così mi recai in Germania accompagnata da mia madre.
Una domenica venni chiamata dalla Priora che aveva saputo della mia assenza alla messa domenicale. Dissi con franchezza che non vivevo la celebrazione come un obbligo. La sua reazione fu scomposta e un po’in tedesco e un po’in inglese prese ad inveire con gli italiani dicendo che eravamo i soliti furbi. Il risultato fu che io e mia madre rientrammo in Italia fortemente deluse.
Passarono gli anni e non mi posi più il problema della mia religiosità; trovavo senso nel lavoro che facevo dove davo e ricevevo molto dai ragazzi con i quali lavoravo. Poi vennero a mancare i miei genitori e questo fu per me un periodo molto difficile.
In particolar modo mi provò, sotto ogni punto di vista, la morte di mio padre, ammalato di arteriosclerosi, arrivata dopo un lungo periodo di accudimento di cui mi sono fatta carico.
Il periodo successivo alla loro morte, lo ricordo come il più brutto della mia vita, mi sono vista precipitare all’inferno. Avevo paura di tutto, di uscire, di incontrare persone. Ero depressa e spaventata; ricordo il terrore di perdere il posto di lavoro, la cosa più preziosa che mi rimaneva.
La svolta è stata il sogno del Padre Nostro. Ero in treno con mio fratello, sentivo un’aria negativa come se mi volessero catturare, un’aria demoniaca. Nel sogno arrivo in stazione, trovo una moltitudine di persone; ho la sensazione che siano contro di me, le sento aggressive, violente. Sono spaventatissima, alzo le mani e dico “Padre nostro che sei nei cieli”, a quel punto si genera una corrente d’aria che apre un corridoio in mezzo alla folla e riusciamo tranquillamente a passare. Ebbene, quel sogno mi ha cambiata, ho riconosciuto l’esistenza di una dimensione importante che mi dà forza.
Ho sempre sognato i bambini prima che nascessero, farà sorridere, ma per me era un segnale che c’era qualcosa nell’aldilà.
Ancora oggi quando sono in difficoltà recito il Padre nostro e sento quella stessa aria. Non mi ritengo una donna di Chiesa; vado a messa ma nulla di più. Ritengo però, che per il nostro quartiere, Don Vincenzo sia una presenza molto importante, non solo per le attività che organizza all’oratorio per i ragazzi, attività sportive e di gioco, ma anche perché, in un quartiere come il nostro, avere dei momenti di riflessione collettiva su argomenti più diversi, ogni martedì, è importante. Don Vincenzo è proprio bravo; riesce a fare uscire di casa alle nove di sera le persone del quartiere, le fa ragionare e discutere insieme. Quando le persone si incontrano e stanno insieme per me è un tempo di condivisione molto importante. Io vado a messa, vado agli incontri, ma non mi sento impegnata più di tanto in parrocchia.
La casetta, la sede del PD e a proposito di sogni…
L’altra realtà nella quale mi sento molto coinvolta è la Casetta di Via Odazio, uno spazio che promuove molte iniziative: dalle feste per le famiglie, al doposcuola, corsi di italiano per stranieri, il cinema nei cortili, cene e altri momenti di socialità.
Io ho però un sogno: quello di occupare tutti gli spazi oggi vuoti come, per esempio, la sede del PD. C’è Claudio, un giovane quarantenne, che oltre ad essersi diplomato al conservatorio sa fare anche il giocoliere e allora, nella sede del PD, sarebbe bellissimo organizzare attività, in alternanza con quelle presenti alla Casetta così da aumentare le occasioni ricreative e formative per il nostro quartiere, un corso di musica o di giocoleria rivolto ai giovani. Ogni volta che vedo quello spazio vuoto penso allo spreco in una situazione dove si potrebbero, invece, creare occasioni di incontro per le persone.
Non ci sono particolari problemi di convivenza nel nostro cortile, non ci sono tensioni tra persone con provenienze diverse, religioni differenti; pian piano le persone sono cambiate, sono arrivate molte persone da paesi diversi ma si vive insieme con grande rispetto reciproco. Serve sicuramente aumentare le attività e le occasioni di incontro, per questo insisto per realizzare il mio sogno: vedere la sede del PD utilizzata per corsi di musica o di giocoleria per i ragazzi del nostro quartiere.