“L’odio” compie 30 anni. Un film che continua a interrogarci. Trent’anni fa, L’odio (La Haine) di Mathieu Kassovitz usciva nelle sale francesi e diventava subito un’opera di culto. Girato in un bianco e nero essenziale, il film racconta 24 ore nella vita di tre giovani — Vinz, Saïd e Hubert — nella periferia di Parigi, dopo una notte di scontri con la polizia. Non ci sono eroi né colpevoli netti, solo persone reali immerse in un tempo che scorre teso, carico di attesa, rabbia, frustrazione.

A distanza di trent’anni, non è solo la sua bellezza visiva a colpire. L’odio parla ancora con una precisione che inquieta. Il suo sguardo sulla marginalità sociale, sul rapporto tra giovani e forze dell’ordine, sulla distanza tra centro e periferia è ancora attuale. O, forse, più attuale che mai.

Nel 2025, mentre in Italia si discute il nuovo DDL SicurezzaL’odio diventa uno specchio: ci mostra come la rabbia, se non ascoltata, si trasforma in disperazione. Come la repressione, da sola, non fa che moltiplicare i conflitti. E ci ricorda che ignorare ciò che avviene nelle periferie, nelle carceri, ai margini, ha un costo altissimo.

Il film non è una denuncia facile. Kassovitz non usa unosguardo cinematografico, macchina a mano, lunghi piani sequenza, tagli netti. Regia nervosa, scrittura asciutta… “È la storia di una società che cade… e mentre cade si ripete: ‘fin qui tutto bene’” . Non c’è niente di retorico in L’odio. Ma c’è tantissimo che ci riguarda, che riguarda chi si muove nei territori, chi entra nelle scuole, nei quartieri più periferici delle città, nelle carceri.

Guardare oggi L’odio non è solo un esercizio cinefilo. È un atto culturale e politico. Perché ci ricorda che nessuna società può costruire sicurezza senza giustizia, e nessun sistema educativo può funzionare senza empatia. E allora, trent’anni dopo, la domanda resta aperta: stiamo ancora cadendo? E se sì, quanto manca all’atterraggio?