Un chilo di mele e patate
Loredana è una voce che viene da lontano…Dal telefono suona chiara, diretta, già desiderosa di raccontarsi. Che volto avrà? Arrivo al primo incontro in ritardo, ho segnato male il numero civico di Via Cilea, proseguo oltre di 100 numeri! Lei mi attende sulla porta di casa: vedo una donna minuta, sorridente, con i capelli corti e gli occhi truccati.
Loredana è tante persone, si presenta parlandomi subito dei suoi cari: Giorgio, mancato da poco, il figlio ammalato, la nipotina. Il suo volto si riflette in quello delle fotografie disposte sui mobili: comprendo che c’è una storia di famiglia, un insieme di relazioni umane e io sto chiedendo di entrarvi. Con quale diritto? Perché? Provo il disagio di chi si affaccia su un’intimità non sua. Ho iniziato allora a presentare il progetto, le modalità e i tempi degli incontri. Avevo in mente una scaletta per la prima chiacchierata, ma poi ho lasciato andar libero il racconto di Loredana e ci siamo trovati con immediatezza a mettere in comune luoghi, esperienze, riflessioni. Mi sembra che abbiamo già ridotto la distanza tra noi.
Per il primo incontro avrei voluto presentarmi con dei fiori, ma non ho trovato un fiorista in zona. In compenso me ne vado via con un (primo) regalo: un chilo di mele e patate!
IO SONO UNA MAGGIOLINA, UN PO’ DOPPIA
Mia mamma è rimasta orfana a 5 anni, il papà aveva perso un po’ la testa, si ubriacava. Lei è stata con la nonna e le zie, mentre mio zio, il suo fratellino, era stato dato a balia, ma lo seguivano poco. So che a 6, 7 anni andava a curare i maiali, li portava in giro nei prati. Verso i 12 e 13 anni mia mamma è venuta giù dalla Valtellina a Milano ed è andata in una famiglia a lavorare, più che altro a fare la dama di compagnia di una bambina, che si chiamava Loredana, della famosa famiglia Zonin, di Verona, quelli dei vini. Poi a 18 anni si è sposata e sono nata io e allora mi ha messo questo nome, perché in quella casa si era trovata molto bene. In famiglia sono stata sempre chiamata Dana, crescendo gli amici mi chiamavano Lory, Loredana lo sento un po’ strano. Io sono un po’ doppia, non a caso il mio segno è Gemelli. È strana anche la vicenda del mio certificato di nascita: sulla carta d’identità e sul codice fiscale la mia nascita risulta a Teglio, come è vero, ma io ho anche un certificato di nascita rilasciato dal Comune di Milano, in cui si legge che sono nata a Milano: probabilmente ai figli degli sfollati veniva rilasciato anche un documento dal comune di residenza dei genitori. Mi ricordo che quando a scuola mi chiedevano il luogo di nascita per compilare la pagella, mia mamma diceva di mettere Milano e io rispondevo: “ma se sono nata a Teglio!” Io sono una maggiolina, a maggio nascono gli asini, è la mia stagione preferita, quando ci sono i fiori, necessari perché ci siano i frutti in autunno. Mi definisco generosa, anche troppo, faccio sempre tutto per gli altri: ho seguito i miei genitori da sposina, ho tenuto in casa a Milano mia mamma per 10 anni e mezzo in carrozzina, io e mio marito abbiamo dormito 5 anni sul divano per lasciare la camera alla mamma. È stato molto bravo anche lui. Sono molto altruista, ho fatto del bene a tanti, a mia sorella, e a volte ho preso pesci in faccia. Mia sorella non è stata grata per quanto ho fatto per lei e per la sua famiglia. Ho anche aiutato una mia vicina di casa, le portavo la spesa e non mi dava mai i soldi, poi a un certo punto non mi ha più salutata…chissà perché. Adesso sto sulle mie. Mi piace il colore blu, se devo prendere un lenzuolo lo prendo azzurro, non rosa. Una volta il rosa era il colore di Gesù e l’azzurro era il colore della Madonna, poi abbiamo cambiato, oggi è il contrario. Me l’ha spiegato una signora che viveva nel nostro palazzo, arrivata dalla Tunisia e poi dalla Francia, la chiamavamo tutti “nonna”, ci ha insegnato a lavorare all’uncinetto e qualche ricetta. Un tempo i bambini si vestivano di rosa e di azzurro, oggi anche i bambini si vestono di nero…Ma anche il colore giallo ha un ruolo molto importante nella mia vita…
Un po’ strega
Imiei figli mi danno della strega, a volte tante cose le prevedo, o forse le ragiono. A 2 anni ero seduta fuori su una scala, mi sono alzata di colpo e ho detto: “papà!”. Io non lo conoscevo, alla sera mi facevano dire la preghiera per lui e vedere una sua foto, ma io non sapevo chi fosse. Tutti i miei parenti hanno cominciato a piangere, siccome lui era prigioniero in Germania, hanno detto: “papà è morto”. Sono venuti a sapere che in quel momento, in quell’ora, mio papà è partito dalla Germania, poi è arrivato a Trieste e da Trieste a Milano a piedi. Una volta ho trovato un gattino nel bosco, era un cosino piccolo, attaccato al naso di un cane lupo di un ragazzo, aveva un coraggio enorme. L’ho raccolto e quando siamo arrivati vicino alle case la padrona del cane lupo lo voleva strozzare. Io invece l’ho tenuto in montagna durante le vacanze e poi l’ho portato a Milano. Si chiamava Pirolo, perché era piccolo. Quando l’abbiamo portato a casa, mio figlio è tornato da Londra e ha portato una foto con un gattino, identico a quello che avevo raccolto. Sembra una cosa impossibile: lui ha ritagliato una foto dal giornale e, quando è arrivato a casa, lo stesso gatto ce l’avevo io! Un’altra volta ero sul balcone, ho visto come una scintilla, un flash e forse ho pensato a mio papà: in quel momento mio padre ha fatto un incidente, si è incrinato le costole: io l’avevo sentito.
”Verrà presto quel giorno…”
Ecco una foto datata 1941: è mia mamma, nella casa di Teglio, con il costume tradizionale del paese. Mia mamma allora era già sposata, ma io non c’ero ancora. Sta filando la lana: con una mano fila la lana grezza dall’arcolaio che tiene sotto all’ascella e con l’altra mano la avvolge sul fuso, che viene fatto ruotare, e arrotola il gomitolo, poi utilizzato per fare le calze, i golf…
Mio papà invece era nato a Nizza Monferrato il 12 aprile 1917, aveva lavorato in una macelleria da ragazzo, prima della guerra. I miei genitori si sono sposati nel febbraio del 1939 e poi mio papà è partito subito militare. Abbiamo delle sue foto in divisa fascista; abbiamo anche una medaglia commemorativa del Duce quando è morto, dopo essere stato arrestato a Mezzegra: dimostrazione di quanto sia importante la Valtellina!
Mio papà non doveva nemmeno fare il militare, in quanto nipote di nonna vedova, poi l’hanno mandato a Trieste, arruolato con la mansione di autiere. Insomma, le auto sono sempre state un filo conduttore della nostra famiglia. Da Trieste inviava ogni giorno una o anche più cartoline a mia madre: raffigurano angoli della città (il porto, il monumento ai caduti della Grande guerra), ma soprattutto immagini di fiori, paesaggi e bambini, le immagini di quel futuro che desideravano insieme. Aveva una bella grafia, anche se aveva fatto solo le scuole elementari. Era molto tenero, scriveva frasi sentimentali, quelle più compromettenti le scriveva sotto al francobollo! Eccone una, per esempio (“arrivederci a presto Mariuccina, perché non ne posso più”).
La chiamava Mariuccina, da Maria, Mariuccia. Al tempo erano già sposati, si sono sposati nel 1939. Scriveva anche molte lettere, ma mia mamma le ha distrutte tutte, diceva che erano troppo intime. Se ne sono salvate pochissime, 3 o 4, mio figlio continua a dirmi di consegnarle al museo di Milano, raccontano un pezzo di storia. Leggendole, si vede come gli pesavano la distanza da casa, i tempi cupi (“tutto è destino”), le poche licenze, come scrive in una lettera del 1942: “Finirà questa vita crudele, questo tormento, non ne posso più, sono proprio senza forza, mancano ancora 12 giorni e non so come passeranno…”. Erano molto teneri tra loro: “Oggi ho ricevuto la tua profumata lettera. Ho baciato quei tuoi petali di rosa”; “Tanti bacioni alla mia gattina”; “Chi ti ricorda. Tuo sempre”; “Un caro bacio a te e Loredana”, (3 luglio 1943).
Una delle poche lettere salvate è datata sabato 11 ottobre 1941, ha il visto della censura. Ecco alcune frasi: “vedo quel quadro che sarà la nostra vita e ne sono contento […] Lo vedo chiaro e nitido ma sempre lontano”; “verrà presto quel giorno che sarai così felice con me nella nostra piccola casa”; “c’è sempre quella speranza nel cuore che tutto finisca il più presto possibile, soltanto così potrà ritornare la felicità in tutti i cuori, ridiventare padroni di se stessi”…
Dopo l’8 settembre del 1943 mio papà è stato arrestato e messo su un treno per Dachau. Ha cercato di buttarsi giù, l’ha trattenuto un commilitone. È stato internato in Germania per tre anni, è stato liberato ed è rientrato in Italia solo il 7 agosto 1945. Era prigioniero a Dachau, ma è stato fortunato perché l’hanno mandato in una fattoria a lavorare, la padrona era una bestia, però non mancava il mangiare, mentre nel campo non avevano niente, scappavano di notte dalle baracche e andavano nella spazzatura e mangiavano quello che trovavano, bucce di patate e carote, tutto gelato.
Nel campo c’era una specie di moneta di carta, si chiamava lagergeld, usata al posto delle banconote normali, per assicurarsi che, nel caso di fuga, i prigionieri non avessero contanti a disposizione. Questo che ha riportato a casa è del valore di 10 Reichspfenning (cioè centesimi); ha una scritta che dice: «denaro da campo di concentramento per prigionieri di guerra. Buono da 10 Reichsmark. Questo buono vale come metodo di pagamento solamente per i prigionieri di guerra, e può essere da loro utilizzato solamente all’interno del campo di prigionia, oppure essere speso nei punti vendita espressamente designati ed accettati. La conversione del buono in denaro legale può avvenire solo dall’amministrazione competente del campo. Infrazioni, imitazione e falsificazioni saranno punite. Il direttore del comando centrale della Wehrmacht».
Il triangolo rosso con la punta verso l’alto identifica un prigioniero membro delle forze armate. Gli avevano consegnato anche un libretto di lavorodel campo, che ha riportato a casa. Quando l’hanno liberato, è tornato a casa a piedi, poi è salito in montagna a trovarci. Ma non ci ha mai raccontato né tanto né volentieri della prigionia. Taceva su queste cose, di episodi legati al campo non sa niente nessuno, perché non li sapeva nemmeno la mamma. L’unica cosa che diceva mia madre è che se sentiva parlare in tedesco sbiancava in faccia, prendeva e se ne andava, non lo sopportava minimamente. L’altra cosa che mi ha detto mia mamma è che quando è tornato era in una condizione fisica spaventosa, pesava 30 chili; c’è una fotografia dell’epoca in cui si vede che è magrissimo, tanto che quando è tornato, ha suonato il campanello della casa, e loro sono usciti, non se lo aspettavano, si son trovati davanti questo ragazzo e sono rimasti tutti allibiti, poi è esplosa una gioia inimmaginabile. Aveva però il desiderio di tornare a vedere il luogo del campo in Germania.
Teglio è tutto
Sono nata a Teglio (Sondrio) il 22 maggio 1943 perché con la guerra eravamo sfollati là, c’erano la bisnonna là e le zie. Mio papà sperava in un maschio, invece sono arrivata io. Non ho ricordi della guerra, ero troppo piccola. Mio nonno aveva una paura terribile quando suonavano le sirene, per quello ha detto a mia mamma di andare via, visto che aspettava un bambino. I nonni sono rimasti a Milano, mio papà era militare a Trieste, quando è tornato è venuto a prenderci – praticamente mi ha visto che io avevo due anni – e siamo tornati a Milano. Mio papà sognava la casetta in montagna, in mezzo a un prato, tra i monti. Aveva sempre detto che se moriva voleva essere portato là, a Teglio. Nel 1995 si è sentito male al cuore, aveva le valigie pronte per tornare a Milano, invece due giorni prima è morto, l’abbiamo lasciato là. Lui era piemontese, mia mamma valtellinese, ma non è che ci tenesse tanto a Teglio, lui invece l’adorava.
Io ho voglia di quelle radici, vado su volentieri, i miei fratelli invece no. L’anno scorso, dopo la morte di mio marito, ho voluto provare a stare su, è stata dura, perché da sola, ma Teglio è Teglio. Ero lì anche quando c’è stata l’alluvione nel 1987, la massa di acqua e fango è scesa da Bormio, si temeva che portasse via Sondrio. C’era il campo a Tresenda, con gli elicotteri, avevano fatto sfollare le persone… Oggi a volte salgo a Teglio di martedì perché c’è il mercato, con il formaggio un po’ particolare… Lì ho ancora i cugini di mia mamma, siamo 4 generazioni e ci frequentiamo ancora, c’è la chiesa dove sono stata battezzata.
Prima si nasceva in casa, con l’ostetrica, che scendeva a piedi dalla montagna. Mio zio aiutava gli ebrei a salire sul passo del Meden, a 2438 metri, sul confine italo-svizzero. Più sotto c’è il lago della Regina. Mio zio ha aiutato moltissimi ebrei, invece alcune persone li ammazzavano, perché scappavano e portavano con sé diamanti e soldi. C’era anche il contrabbando. Una volta abbiamo curiosato in una cantina, le tenevano aperte: c’erano tutte le bisacce piene, siamo scappate via subito. I nonni paterni invece avevano una casa a Calosso d’Asti, nelle Langhe: anche quella campagna è un luogo della mia infanzia.
Tre case
A Teglio siamo vissuti in diverse case. C’è la casa della foto che ritrae mia mamma che sta filando. Era rimasta orfana, è stata cresciuta da una zia che non si è mai sposata e dalla nonna. Quando si andava su d’estate si andava lì, finché c’è stata la zia. Poi c’è la casa dove siamo adesso, l’ha costruita mio papà,come l’aveva sempre sognata: davanti non abbiamo nemmeno un tetto, c’è la vallata, la montagna e basta.In una contrada ne abbiamo comprata un’altra, io e mio marito, piccola, prima era una stalla con il fienile, davanti ha l’aia. Ma quando dico Teglio ripenso alla casa della mia infanzia, quella in cui sono nata, quella che mi è più cara: tutti i ricordi sono lì!
Mio nonno aveva avuto sei o sette figli: infatti sulla facciata della sua casa c’era un affresco che raffigurava Dio con le braccia allargate e sotto la sua protezione i santi i cui nomi erano stati dati ai figli. C’era quindi un cortile e un giardino, c’era una pianta di prugne, ne faceva di viola, buonissime, è stata colpita dal fulmine, ma c’è ancora. Dal cortile attraverso una porta si va nell’orto, dietro, dove c’era anche il gabinetto, in fondo. Ogni tanto passava un ometto che svuotava il gabinetto: con un gerlo portava via gli escrementi, che servivano per concimare gli orti. Sempre sotto c’erano da una parte la cantina e dall’altra la stalla. Nella cantina i tedeschi avevano fatto i loro uffici. Tra l’altro uno aveva avuto un po’ di sguardi per nostra zia e lei gli ha detto: “ma va, macaco”. L’ha messa al muro, la stava ammazzando, poi per fortuna gli hanno spiegato che non era una parola brutta…La cantina si usava come frigo, per tenere al fresco i cibi, poi vi si metteva il grano, la farina e le patate, che venivano pesate sulla stadera. In cantina si teneva anche una piccola brocca per il vino, la chiamavano il mèzz: non c’erano bicchieri. C’era anche il ciapel, una ciotola in legno, infatti non avevano neanche stoviglie in ceramica, usavano piatti fatti di legno scavato. Il ciapelera utilizzato per mangiare qualcosa ma anche per berci il vino.
Dal basso partiva una scala che saliva per due piani: una metà dell’abitazione era della zia e una metà nostra. Al primo piano c’era un balcone, che aveva la ringhiera fatta con un solo tronco di legno – si poteva cadere giù. Sulla finestra c’era una grata in ferro, bombata per poterci mettere i gerani e gli altri fiori, che a volte non erano tenuti in un vaso, ma in una latta vuota dell’olio. Le tapparelle di legno erano state fatte da loro.
Si saliva e sopra c’era una stanza con il camino e la cucina, con il pavimento di legno, la credenza, il tavolo e le panche; poi su c’era la camera da letto, anche questa con pavimento in legno e le travi, da cui ogni tanto veniva giù qualche bestiola: ragni, topini…
La stanza era fredda, poi con il pavimento di legno, figuriamoci…Avevano solo il camino nella stanza grande. Si dormiva tutti insieme, in due lettoni, per stare al caldo, mio mamma aveva paura di trovarmi morta per il freddo.Mi diceva che di notte gelava l’urina nel vaso da notte dentro l’armadietto. Neanche il letto era caldo, perché i materassi erano fatto da un sacco enorme che copriva tutto il letto, con una grande asola, riempito di foglie di granoturco: al mattino si metteva dentro la mano e lo si risistemava. Un tempo si usava il cosiddetto prete, formato da due semiarchi in legno e la base in ferro, dove si metteva la cenere. Gli archetti tenevano alzate le lenzuola, a volte però scappava fuori qualche scintilla e tutto prendeva fuoco: anche la nostra casa era bruciata. Si usava anche lo scaldino, un contenitore di ferro riempito di acqua calda.
Per riscaldarsi stavano nelle stalle, come nel presepe. C’era chi faceva i ferri, le calze pesanti, c’erano i bambini, si diceva il rosario e si raccontavano storie. Poi salivano e andavano a letto. Per il freddo si coprivano con una cuffietta in testa e con maglie e mutandoni di lana. Nella stanza sulle travi si appendevano le mele e l’uva, si facevano seccare appese a delle corde, c’era un profumo…e sotto il letto si mettevano le castagne.
Sopra ancora c’era il solaio, chiamato spazzacà, dove c’era una cassapanca e là si teneva il pane di segale: lo facevano ogni 3 o 4 mesi, le donne andavano al mulino, facevano macinare la propria farina, poi salivano al forno in paese (ce ne erano uno o due) e facevano il pane. Era a forma di ciambella, poi lo mettevano a seccare infilato in un bastone su in solaio, dove mettevano anche le castagne, le mele. Diventava duro, morbido era solo i primi giorni. All’ultimo pezzo di pasta avanzato dal pane aggiungevano zucchero, uova e un po’ di uvetta e facevano le brazzadelle. I bambini facevano festa perché era l’unica cosa dolce che avevano.
Il tetto era di piode. Le camere e il fienile erano chiuse con grossi legni e grosse chiavi, poi c’era un lucchetto. Da piccolina avevo sempre paura di rimanere chiusa dentro, perché non capivo mai da che parte girare!
In casa non c’era acqua, non c’era nemmeno il lavandino: c’erano un secchio o due infilati in un legno sotto lo scolapiatti. Dentro si teneva un mestolo, si beveva così, si lavavano i piatti nel catino. C’era la fontana sotto casa, una signora mi raccontava che aveva il bambino nato a gennaio e andava giù al lavatoio a lavare: spaccava il ghiaccio e lavava i patelli. Era una vita difficile, vivevano con poco o niente e comunque vivevano bene. La fontana era un luogo anche di incontro, di chiacchierare e di parlarsi dietro: quello che non lo sapevano se lo inventavano, se vedevano anche solo uno sguardo, eri già andata con quello là…
Non ci sono montagne a Calosso
In Valtellina tutti avevano una mucca e un maiale. Lo uccidevano a gennaio, non tutti nello stesso giorno. C’era chi lo sapeva uccidere e allora aiutava gli altri. Facevano cuocere il lardo e facevano lo strutto, ma facevano anche il burro, che veniva cotto e usato come strutto. Chiamavano primiziale prime salamelle, quelle che non si conservano, allora se le scambiavano. Si faceva festa perché così c’era da mangiare per tutto l’anno. Il mio bisnonno trattava la vendita dei maiali, aveva un portafoglio a fisarmonica. Quando uccidevano il maiale uccidevano anche i gatti: mia mamma da bambina ogni anno riceveva in regalo il gattino, però poi a un certo punto spariva: dopo l’ha capito, ammazzavano il gatto e facevano festa! In Piemonte non c’erano i maiali, al massimo le capre, però avevano i buoi, che usavano per i lavori nelle vigne. C’erano i bric: non ci sono montagne a Calosso, ma c’è questo su e giù, detto bric. Lì usavano i buoi bianchi, bestioni enormi e dolcissimi, che venivano legati a un carro che, per poter scendere nelle vigne senza precipitare, non aveva ruote, ma dei lunghi legni ricurvi, come nelle slitte. I buoi piuttosto si spaccavano gli stinchi, ma trattenevano il peso.
Durante la vendemmia con la forbice si tagliava il grappolo, ognuno aveva il suo cesto, poi si versava nel cesto più grande e si caricava il tutto sui carri, che risalivano sull’aia, dove l’uva si metteva nei tini e si schiacciava con i piedi. Come quando si uccideva il maiale c’era un clima di festa, perché poi c’è da mangiare per tutto l’anno. Ho fatto in tempo a fare la vendemmia, avevo circa 10-12 anni, e ne sono contenta. Ci si aiutava, in campagna è sempre stato così.
Le Langhe non mi piacevano perché non c’era acqua, avevamo una casa a Calosso d’Asti, vicino a Canelli, al confine con Santo Stefano Belbo, dove andavamo in bicicletta a fare la spesa, con quelle pesanti da uomo. Una mattina sono caduta, ho rovinato il vestito. Poi mio nonno aveva fatto il pozzo, c’erano i secchi smaltati bianchi, si tirava su l’acqua e ogni tanto c’era dentro qualche vermetto. Io non volevo più berla, mi faceva senso, ma mia cugina mi ha detto: “che cosa credi, la nonna con quell’acqua cucina!”Allora ho cominciato a bere vino, del Barbera, tanto che mi sono ubriacata, sono stata proprio male, avevo 13 anni! Ho un vago ricordo della morte di Pavese: noi eravamo un po’ fuori, proprio sul confine, ma mia nonna ne conosceva la mamma e avevo sentito parlare di questa tragedia.
Nelle Langhe la terra è fangosa, quando piove si formano le crepe. Avevamo la casa e il gabinetto dall’altra parte dell’aia, la attraversavi e al ritorno eri più alta. Come mai? Si appiccicava tutta la creta sotto alle scarpe, è una terra argillosa. Mi hanno detto che quando pioveva mio papà andava a scuola con i trampoli per poter camminare nel fango. Sopra il gabinetto c’era un tettuccio con dentro i conigli, mi ci affezionavo, oggi non riesco proprio a mangiarli. Stavo lì delle ore, magari con un libro, in mezzo ai conigli.
Abbiamo sempre avuto il mezzadro. Finché c’è stato il nonno, che era un uomo adorabile, si andava là, poi basta. Mia nonna invece faceva parzialità, mi odiava, era tutta per mia sorella. Nascondeva le cassette di frutta sotto il letto, chiamava mia sorella e le dava la frutta, a me invece niente. Però quando aveva bisogno chiedeva sempre a me e nonostante tutto io ero sempre disponibile. Era padrona di mezzo paese, era ricchissima. Aveva il calesse con il suo cavallino. Volevano farle fare un matrimonio con un signore, un uomo che lei non voleva. Allora è andata alla finestra e ha sparato un colpo, per far capire che si stava ammazzando. È stato così che ha sposato mio nonno, che era un poveraccio, avevamo questa casa enorme. A Calosso abitava anche la bisnonna, ricordo che anche lei non mi voleva vedere. Una volta la moglie del mezzadro mi ha portato da lei, ho sentito che le diceva: “tit vegn, a tota no”e mi ha chiuso la porta in faccia. È un rifiuto che mi fa soffrire ancora adesso. Il fatto è che quando scoppiò la guerra del ’15-’18, i suoi 3 fratelli per non andarci hanno masticato il tabacco e sono morti tutti e tre. Da allora la bisnonna è impazzita e non ha più voluto vedere la figlia femmina, non voleva riconoscere la sua discendenza. Alla fine è rimasta sola e anziana – in Piemonte le case sono molto isolate, perché ognuna ha anche il terreno della vigna – e si è buttata nel pozzo.
“COME, NON C’ERA IL GABINETTO!?”
Mi piace tenere da parte le cose e gli abiti di un tempo, ho il pallino per questo: ho ancora le vecchie camicie da notte fatte dalla mia bisnonna a mano e quelle di canapa, poi ne ho altre fatte a macchina e di tessuto più leggero. Ho conservato le vecchie chiavi, le vecchie scatole in latta, che adesso non si vedono più in giro. Sono tutti oggetti che si possono riciclare. Poi c’è il vaso da notte che si teneva nel comodino di fianco al letto, uno, non due, poiché non c’era il gabinetto. Al mattino si andava a versarne il contenuto nell’orto e poi si usava come concime. A Milano invece c’erano le case di ringhiera, in fondo c’era un angolino con un unico gabinetto per tutte le famiglie della ringhiera. Io però ho avuto sempre il gabinetto in casa. Un po’ di tempo fa nella scuola di mia nipote hanno invitato le nonne, eravamo in tre, a raccontare qualcosa della loro vita e a portare qualche oggetto significativo del passato. Io sono arrivata con un trolley pieno di cose, il vaso da notte è quello che è piaciuto di più, non se lo aspettavano. “Come, non c’era il gabinetto!?!”, mi hanno domandato stupiti i bambini.
Del tempo della guerra conservo anche uno specchietto (non è fatto di vetro, ma di metallo, perché avevano paura che i soldati si tagliassero) e una gavetta militare: l’aveva rubata mia cognata a Milano e la stavano mettendo al muro perché l’avevano scoperta. È fatta a due strati per mettervi i cibi: la minestra si metteva sotto, mentre il secondo si metteva sopra.
Un altro oggetto a me caro è il pudin, in Valtellina tutti l’hanno in tasca: è una piccola roncola che viene da Premana, il paese delle forbici. Si richiude e in tasca non è pericoloso, serve per tagliare il pane, il salame, il formaggio, serve anche per fare l’innesto nelle piante, magari anche come arma o per scannare il coniglio.Ne ho regalato uno al mio dottore, quello che mi ha fatto il bypass intestinale, e ho fatto incidere sopra la scritta “Teglio” e la data. L’ha apprezzato molto. Ha comprato una casetta in Piemonte, ma verso la Liguria, per poter andare al mare.
Anche quando vado a fare qualche viaggio compro sempre qualcosa. Ho un piccolo coltello preso in Marocco, quando abbiamo visitato le città imperiali: si può chiudere e tenere in borsa. Ho comparto dei fossili nel deserto, in India il sari, le pashmine, le collane…
Sul tavolo si mischiano documenti vari: il “foglio di congedo illimitato” del nonno, del 1897; documenti del papà di Loredana (Stato di famiglia e Libretto di lavoro, versamenti dei contributi; copia del foglio matricolare); la pagella del marito del 1954; la tessera del tiro a segno…Poi ritagli di giornale, fotografie, le cartoline e le lettere del papà alla mamma, con i francobolli da 10, 20 e 30 centesimi che raffigurano il glorioso passato di Roma (Giulio Cesare, Ottaviano Augusto) e il presente: il re d’Italia, Hitler e Mussolini accompagnati dalla tragica scritta “due popoli, una guerra”…Fogli ingialliti, timbri, scritte a inchiostro: tutto rimanda a un passato che si può recuperare e custodire tramite gli oggetti e il ricordo, forse anche con le parole, come stiamo facendo, Loredana e io, da un po’ di tempo…
Nel quartiere stavamo per strada
Nel 1945, dalla montagna sono scesa in città a Milano, abitando inizialmente in Bovisa. Ricordo qualcosa dell’asilo, c’era addirittura una giostra con i cavalli, l’unico gioco che c’era. Nel 1946 è nata mia sorella e, 15 anni dopo di me, anche mio fratello. A scuola si andava a piedi da soli, in Bovisa era tutto abbastanza vicino. Il primo giorno sono andata nella scuola di via Podio, le scuole avevano due entrate e due cancelli: uno per la sezione maschile e l’altro che introduceva a quella femminile. Dovevamo indossare il grembiulino bianco, il primo giorno avevo una paura boia. La maestra era bravissima. Ero vergognosa ma anche chiacchierona, stavo sempre girata: la mia maestra mi diceva che mi vedeva più il dietro che il davanti! Era stupenda, era proprio una mamma. Bisognava alzarsi, fare il saluto alla maestra quando entrava, dire la preghierina. Mi ricordo che era arrivata una bambina dall’Africa, che aveva il padre italiano, forse figlia di un soldato. Nessuno la guardava, io mi ci ero affezionata. Ci davano la merenda con i piatti di alluminio.
Nel quartiere stavamo per strada, si giocava lì, sulle vie Varè e Mercantini. Non ho mai avuto molte amicizie, ero molto chiusa. Mi ha aperto la maestra di mio figlio, io non parlavo tanto, lei insisteva perché andassi ai colloqui tra insegnanti e genitori e così un po’ mi ha aperta. Eravamo solo noi, io, mia sorella e i miei cugini. I miei erano impegnati con la trattoria in Bovisa, si chiamava semplicemente “Caffè” (e pensare che io odio il caffè, non lo bevo!). Mio papà dal Piemonte si faceva portare il vino in damigiana e allora lo imbottigliavamo e poi lo vendevamo. Mio papà alle 6 del mattino era già in trattoria, mia mamma faceva il pomeriggio e poi tornava ancora mio papà: erano molto impegnati, per cui non facevamo tante gite, non si andava molto in giro, soldini non ce n’erano tanti. Ricordo che mio papà si era comprato un Guzzi Galletto, bianco, poi gliel’hanno rubato. Aveva anche una Lambretta.
Poi è nato mio fratello e io ero un po’ come la sua mamma, l’ho tenuto a Battesimo, mentre mio marito a Cresima. Avevamo 15 anni di differenza, gli facevo i disegnini sui quaderni. Mia mamma, avendolo avuto così tardi, aveva vergogna, la prendevano un po’ come la nonna, le dava fastidio accompagnarlo a scuola e andare a prenderlo. Andavo all’oratorio dalle suore in Bovisa e infatti dalle suore ho fatto le scuole Commerciali, in un istituto privato. Dei ragazzi avevo una vergogna boia, ma anche degli uomini quando lavoravo. Dicevo “o Dio, adesso viene qua!”. Poi mi dicevo: “ma che scema!”. È rimasta sempre un po’ la vergogna. Superare i maschi mi piaceva, però!
Avevo fatto la terza commerciale serale, prendevo il mio tram e venivo a casa a mezzanotte da sola alla sera, adesso non solo una ragazza ma anche un’anziana hanno paura a girare per la città. Un tempo c’era Vallanzasca, la banda di via Osoppo, ricordo la famosa rapina del 1958, e la Banda Cavallero, ma questi fatti di cronaca nera non si sentivano più di tanto. Da noi non è mai capitato niente, c’era sì droga, me lo dicevano anche i miei figli. Una volta però due ragazzi, ben vestiti, a Quarto Oggiaro hanno puntato il coltello alla gola di mio marito e gli hanno portato via la macchina e anche la catenina e la fede; io da allora non son riuscita più a portare la fede: pensare alla mia, con il mio nome, in mano ad altri… Lui non ce l’aveva più e io neanche. Ricordo poco invece della Milano del dopoguerra e della contestazione del ’68, erano fatti che accadevano lontano dal quartiere.
Ai giovani d’oggi direi di stare attenti, un tempo si diceva “speriamo che una ragazza trovi un bravo ragazzo”, oggi diciamo il contrario. Oggi le ragazze sono più leggere: hanno lo stipendio, che noi non avevamo, hanno la pillola, hanno un’autonomia maggiore, ma i ragazzi di oggi mi sembrano anche un po’ sbandati, abbandonati. A mia nipote dico sempre: “stai attenta, stai attenta al bullismo e parla, parla sempre, racconta”.
”Tu sei romantica”
Dalla Bovisa siamo venuti in Viale Certosa, dove ho conosciuto mio marito. Mio marito è del 1940. Ha perso la mamma a 5 anni, ha fatto 8 anni di collegio presso la Sacra famiglia di Cesano Boscone, poi ha fatto le scuole Commerciali. L’ho conosciuto che io avevo 18 anni, a 22 ci siamo sposati, lui ne aveva 2 più di me. Ci siamo sposati con il taxi verde e nero di mio papà! Anche lui era un po’ chiuso, ma insieme eravamo il braccio e la mente, ci prendevamo in giro per questo: io non avevo forza ma ci arrivavo più di lui su tante cose. Una volta abbiamo messo la tappezzeria, io organizzavo il lavoro e lui non capiva da quale verso andassero messi i fiori! Una volta abbiamo cambiato il cervello della lavatrice e siamo riusciti a farla funzionare! Ricordo che quando abbiamo comprato la prima lavatrice siamo stati a osservare tutto il ciclo del primo lavaggio!
Siamo stati insieme per 51 anni di matrimonio. Nel 2015 per le nozze d’oro siamo andati a un incontro promosso dal Comune al teatro Dal Verme, c’erano tutte le coppie sposate nel 1965, abbiamo fatto quattro turni, c’era il sindaco Pisapia: ci ha risposato, anche perché la formula del matrimonio è un po’ cambiata negli anni, non si dice più che la donna deve sottostare al marito! Hanno suonato alcune canzoni degli anni Sessanta, c’erano anche Bobby Solo e Tony Dallara, quello di “Tu sei romantica”. Quando c’è stato l’intervallo, tutti quanti via, al bagno! Eh, l’età!
Mio marito mi ha sempre lasciata libera. Era protettivo con i figli, io ho sempre cercato di parlare con loro, aiutarli e responsabilizzarli quando sono cresciuti. Davide si è diplomato, Daniele non ha voluto assolutamente studiare. Li abbiamo aiutati quando hanno voluto prendere anche loro la licenza dei taxi, abbiamo impegnato capitali e hanno lavorato da quando hanno compiuto 20 anni. Il lavoro del taxista è pesante, tante ore di seguito, devi fare sempre i turni…Di positivo c’è che per i soldi non si deve aspettare la fine del mese, alla sera il guadagno è quello. Però bisogna essere previdenti, mettere da parte: può capitare un incidente o la necessità di cambiare la macchina…
Ho patito la malattia di mio figlio Davide, la fibrosi cistica. L’hanno scoperta a Sondalo, in chirurgia era il più giovane, molto coccolato, ma non si capiva che cosa avesse. Ero andata all’ospedale Sacco, ma non mi piaceva la struttura. Lui intanto faceva continue bronchiti. Allora l’abbiamo fatto curare a Sondalo, salivo all’ospedale tutti i giorni con il taxi di mio figlio, la strada è piuttosto erta. Il prof. che lo seguiva è venuto al san Gerardo di Monza, poi è tornato in Valtellina e così abbiamo perso un po’ di tempo. Un giorno la caposala ci ha proposto di portare Davide in pneumologia. Lì abbiamo trovato un dottorino giovane, che ci ha detto: “io ho un dubbio”. Allora l’abbiamo portato in ambulanza a Milano, dove gli hanno fatto il test del sudore, da cui hanno capito. È una malattia congenita, bisogna essere tutti e due portatori sani, ma noi non abbiamo nessuno in famiglia che ne ha sofferto, è un regalo anche di 7 generazioni precedenti…
Nelle pozzanghere c’eran o i girini
Nel 1970 ho avuto il secondo figlio e ci siamo trasferiti nel Gallaratese, quartiere che conoscevo già perché ci abitava mia zia, sposata, che era padrona di un Bar e dell’officina, dove lavorava mio zio, vicina alla fermata Torrazza del Gamba de legn. Ogni tanto venivo a trovare gli zii. Quando siamo arrivati eravamo sposini, come tutti, che avevano i figli piccoli. I primi tempi abbiamo fatto un po’ di amicizie, ricordo che una volta abbiamo mangiato le pizze nel prato, poi crescendo ognuno è andato per la sua strada. Oggi siamo tutti vecchi, siamo quasi tutte vedove.Nel quartiere qui davanti non c’era niente, erano tutti prati, che in parte ci sono ancora adesso, è dove hanno costruito per l’Expo. Oggi il quartiere è molto popolato, prima c’erano molti prati, c’era ancora l’Olona scoperta. Non c’erano la Motorizzazione e la metropolitana. Arrivava l’autobus sotto casa, c’era il capolinea, e c’era ancora il “gamba de legn”, il trenino che andava in Corso Sempione.
Ma in centro non ci andavamo, non c’era la metro, mio marito guidava tutto il giorno, di domenica si riposava, avevamo appena comprato la licenza del taxi e avevamo molte spese: due bambini, la macchina, la casa… Avevano costruito le case, sono state vuote per 5, 6 anni e poi le hanno consegnate. C’era la scuola, nelle pozzanghere c’erano i girini! Qui davanti c’era una fattoria, dove andavamo a prendere il latte. Avevano anche i pavoni, facevano versi strani, sembravano bambini che finivano sotto una macchina! Ancora adesso siamo periferia, un passo e siamo a Pero. C’era una cava, poi l’hanno coperta; c’era il ruscello e il prato di don Abramo Martignoni, che aveva fondato nel 1965 la casa del Giovane “La Madonnina”, una comunità dove offriva ospitalità ai giovani che venivano a Milano per lavoro o per motivi di studio.Era stato aiutato e finanziato dalla famiglia Falck. Venivano tanti ragazzi del meridione o drogati, tenevano degli animali;avevano anche costruito una piscina. Don Abramo aveva detto che lasciava tutto al Comune purché la cascina fosse aperta al pubblico, invece non è stato così. Una parte è aperta e l’altra è cintata, dove c’è ora la scuola calcio del Milan.
Nelle case nuove ci sono un po’ di stranieri, parecchi sudamericani, e anche zingari, che danno qualche problema di convivenza. Siamo sul confine con Pero, per i negozi si va a Bonola, due fermate di metro, qualcuno va anche a Pero. Ci sono tre mercati a settimana, tutte le più grandi ditte automobilistiche (Mercedes, Opel, Peugeot). C’è l’Agfa, siamo vicini al cimitero di Musocco. C’è un prevosto e gli sono affidate 3, 4 parrocchie, a “Regina pacis” c’è il teatro e il cinema, ogni tanto ci vado. Dalla mia finestra un tempo vedevo tutti prati, fino a Trenno, ora vedo la Motorizzazione, le scuole di calcio. Oggi il quartiere è molto popolato, c’è ancora tanto verde però: l’altra sera c’era uno scoiattolo nel prato sotto il balcone e rientrando da una riunione a mezzanotte ho visto anche una lepre. In Via Cilea c’è il complesso di Monte Amiata, una casa fatta da grandi architetti, vengono a fare le foto perché è particolare.
“Taxista simpatica e molto veloce”
Terminate le scuole, ho lavorato in una rubinetteria in zona Affori, tenevo la contabilità. C’era una mia collega che mi ha insegnato molte cose, poi si è fatta suora di clausura. C’era anche una zitella che me ne ha fatte passare di tutti i colori. Poi sono stata in piazza Gramsci, in un negozio che vendeva le piastrelle della ditta Marazzi di Sassuolo. Anche lì c’era una zitellona, che mi ha fatto veramente patire. Ho sofferto tantissimo, ero anche incinta di Daniele. Mi mandava per ripicca a fare le raccomandate, mi trattava proprio malissimo, al che ho detto basta. Poi avevo due bambini e mio marito mi ha detto: “piuttosto lavoro io il sabato e la domenica, ma tu stai a casa con i bambini”.
Ho fatto la casalinga, la rifarei, ma se avessi potuto lavorare e fare qualcosa che mi piacesse, avrei continuato il lavoro d’ufficio. La casa è importante, ma io non sono come mia mamma, che tutti i giorni lavava i vetri, spolverava il pavimento, fatto il letto non si poteva toccare…Quello che devo fare faccio, la casalinga mi sta bene, ma la casa non deve essere un’ossessione. Ho fatto diversi lavori anche per dimostrare che non sono solo una casalinga.
Infatti a un certo punto ho deciso: mio padre, dopo aver tenuto la trattoria in Bovisa, aveva preso la licenza per guidare i taxi. Era una delle prime licenze, con il numero 5663, la sua era ancora quella dei cavalli. Così, ha fatto il taxista per il resto della sua vita. Io ho pensato che avrei potuto essere utile sostituendolo in caso di necessità. Ma non avevo ancora la patente: allora era difficile che una donna guidasse, poi si diventava maggiorenni a 21 anni. Perciò ho preso la patente per ripicca, mi son detta: “possibile che non riesca a fare qualcosa di più della casalinga?”Allora mi sono impegnata, mi ha insegnato mio marito, l’ho fatta da privatista. È stata un po’ dura, lui guidava e pretendeva. Ho fatto pratica sul taxi, per cui gli altri automobilisti non lo sapevano. Un giorno un camionista mi sorpassa e fa: “lassala a caa a fa i calzett”. Non l’avesse mai detto: ho preso la patente, poi, siccome il taxi non può essere guidato da tutti, ho fatto l’esame la licenza per la guida con passeggeri. “Te le do io i calzett”…Era il 1986, ho fatto l’esame e ho preso il cosiddetto “bollettone”, cioè il documento di “conducente di autoveicoli per servizio da piazza”: con questa puoi sostituire chi guida, mentre con la licenza sei proprietario del taxi. Così ho iniziato a sostituire mio marito e poi soprattutto mio figlio Davide, in caso di necessità. Infatti ha iniziato Daniele a dire: “io voglio fare il taxista”; dopo due anni anche Davide dice: “l’ha fatto lui, anch’io lo voglio fare”. “Ragazzi – ho detto – non parlate di fidanzate, state in casa, lavorate e pagate la vostra licenza”. Io li sostituivo: intorno al 1986 eravamo solo 5 o 6 donne in tutta Milano a guidare i taxi! Successivamente ho sostenuto anche il patentino KB, cioè il certificato di abilitazione professionale, una sorta di patente superiore, bisogna fare gli esami sulla meccanica della macchina, ero l’unica donna, mi son detta: “che cosa faccio qua con tutti sti uomini?”. Entra uno, esce: bocciato: Entra un altro, esce: bocciato. Vado dentro: promossa. Quando sono uscita mi sento dire: “eh per forza, è una donna”. Mica vero, mi ha tenuta sotto un bel po’, era un ragazzo giovane.
Chi prendeva il taxi allora era una persona a modo, aveva i soldi per pagare, non era come oggi, che ti chiedono di essere trasportati e poi a un semaforo scappano giù. Ho portato Mia Martini e mi ha fatto i complimenti, ho portato Fantozzi. Avevo una macchina grossa, una 131, poi abbiamo avuto anche una Ritmo e una Citroen: tutte vetture gialle. Quando salivo a Teglio mi chiamavano “quella con la macchina gialla!” Un giorno un signore mi ha chiesto di essere portato in una via vicino a Corso Sempione, ma io non sapevo dove fosse. Poi finalmente siamo arrivati in questa vietta, prima di scendere mi ha detto: “Signora, stia attenta perché questa via viene chiesta perché c’è un albergo di gran lusso”. La settimana dopo sale un tedescone, mi chiede la via. “Sa dov’è?”, “Sì”. Quando siamo arrivati erano lì ad aspettarlo, si sono messi sull’attenti, era un pezzo grosso. Una volta salgono due giapponesi e mi dicono: “Meno male che c’è una donna anche qua, perché in Giappone tante donne guidano i taxi”. Mi hanno fatto andare in una via stretta e poi mi sono accorta che non avevo fatto partire il tassametro! Un’altra volta ho portato un signore in Maciachini. Arrivato mi dice: “sono 2 o 3 giorni che faccio questa strada”. Gli ho chiesto se il tassametro era giusto e mi ha detto che il prezzo era inferiore di 20 lire dal giorno prima. “Meno male!”, ero molto agitata!
Un signore siciliano fa per salire insieme al figlio, poi vede che guida una donna e si rifiuta di salire. Mi lascia il figlio in macchina: aveva un cestino con dentro forse uova, frutta o arance e sopra un pollo! Abbiamo chiacchierato, alla fine mi voleva dare il suo indirizzo in Sicilia per andare a trovarlo. Un’altra volta un avvocato – l’ho portato al tribunale, mi ha detto “lei non ha in mente dei casini che ci sono qua dentro!”Era prima di Mani pulite – e mi ha detto: “ma siamo già arrivati? Non ho mai fatto così in fretta”. Allora gli ho detto: “Visto che è stato così contento, mi fa un bigliettino che lo faccio vedere a mio marito?”. Me l’ha scritto, diceva che era molto contento: “taxista simpatica e molto veloce”. Lo conservo ancora adesso!
Il taxista è un po’ come il parrucchiere, ti raccontano tutto, tanto poi non ti vedono più! Ho caricato una che era andata ad abortire, aveva una storia tragica, i clienti raccontano, parlano. Facevo dalle 8.00 alle 12.00, perché avevo i bambini che tornavano da scuola. Andavo quando capitava e serviva. Anche le donne mi facevano i complimenti. Una volta una è salita in macchina e ha detto: “Che profumo! Ecco perché!”. Ho fatto un mestiere che facevano solo gli uomini. Ho litigato tanto con mio marito: l’avevo superato!
Non era facile guidare il taxi, allora non c’erano il telefono o il navigatore. Io mi tenevo buoni non i taxisti davanti, ma quelli dietro: senza dare del tu riuscivo a farmi aiutare: “oh ragazzi, bella giornata oggi, aiutatemi, datemi le dritte!”. Mi affidavo ai giovani, quelli che avevano fatto il corso con me. Ce n’era uno che mi aiutava, una volta mi dice: “quando trovo te, faccio sempre una bella corsa, mi porti bene”. Un giorno arriva una taxista, si mette davanti per fregarmi la corsa, non saluta, fa la preziosa, quella che sembra dire “so tutto io”. Arriva un cliente e lei non sapeva dove andare: solo allora ha chiesto agli altri taxisti, ma le hanno dato indicazioni del tutto sbagliate! C’era un’altra signora vedova, con 2 figli, in più d’inverno con le scarpine col tacco, io mi mettevo un paio di stivaletti. Un taxista ci guarda e fa: “tu sarai più carina ed elegante, ma lei è più furba di te!”. Come fai col freddo e i tacchi a guidare? Quando cominciavo a sapere dove andare, ho cominciato a sentirmi padrona della città.
Quando andavamo a ballare, la mia amica Marina ha conosciuto un tizio e si son messi insieme. Continuava a dirmi che mi conosceva, poi finisce che parla con Giorgio e scopro che era un taxista anche lui: “ecco dove ti ho conosciuto!”Era un taxista che dipingeva quadri belli, mi fa vedere delle foto e gli dico, gli chiedo di farmene uno, poi passa del tempo e non succede niente. Un giorno lo trovo e gli chiedo spiegazioni. Mi ha detto: “a seconda della persona devo farle un quadro adatto”. Non conosceva mio marito e mio marito non lo conosceva, poi mi ha detto: “devo aggiungere una cosa” e ha aggiunto un tratto di chiaro, nel rosso in alto nel quadro. Quella luce ero io! È venuto a casa a portarmelo, mio marito voleva uscire. “Ma dove vuoi andare”, gli ho detto!. Suona il campanello, entra quell’altro: “ma va via, te set ti il pitur!”Si conoscevano! Mi ha fatto anche il quadro che raffigura una nave. Poi ne ho uno con moltissime farfalle azzurre, attaccate una di seguito all’altra: hanno colori e riflessi incredibili! Sono ricordi…
Così ho iniziato a sparare anch’io
Fino all’anno scorso ho tenuto la tessera del tiro a segno, quello che si fa con pistole vere. Ce l’avevo anch’io la pistola, l’ho regalata a un ragazzo, un avvocato, che è venuto al funerale di mio marito. Mi è passato accanto e ho avuto come un flash. Gli ho detto: “ma tu mica vai al tiro a segno?”. Mi ha risposto: “sì, come fai a saperlo?”. Gli ho detto: “ho lì la pistola e non so che cosa farmene”. L’ha portata dai carabinieri, ha fatto subito la denuncia. Per poterla utilizzare bisogna fare un esame e ci vuole il patentino. Me l’ha rilasciato la Questura di Sondrio, con la conseguente Carta di trasporto dell’arma.
Tutto è partito dal fatto che a Tirano c’è il tiro a segno. Vicino a noi a Teglio abitava un ragazzo, Valerio. Era un ragazzone di 1,90 m., riusciva a prendersi in braccio anche mio figlio! Gli è capitato un terribile incidente, si è rotto la spina dorsale ed è rimasto paraplegico. Io ero l’unica che aveva la macchina, ero disponibile perché ero in vacanza e così i miei figli sono diventati suoi amici. Abitava al terzo piano e la mamma voleva tenerlo sotto una campana di vetro…Col tempo ci siamo affezionati, lui si è appoggiato tantissimo a me. L’ho accompagnato per la patente, mi faceva guidare la sua macchina, che non prestava a nessuno. Io non riuscivo a mettere la quinta, allora la metteva lui. Bei tempi, ero giovane… Un giorno siamo andati al tiro a segno. Il maresciallo gli ha proposto di iscriversi, lui era indeciso, aveva paura di non farcela, poi l’abbiamo fatto. Per lui avevano fatto una corsia di passaggio, con dei legni per farlo scendere nel prato con la carrozzina. Così ho iniziato a sparare anch’io, anche con le pistole grosse. Lasciavo la mia pistola al tiro a segno, era una calibro 22, ma ho sparato anche con la colt e la 44 magnum, che ha un notevole rinculo. Un giorno abbiamo comprato anche un kalashnikov, siamo andati in giro in macchina con questo e la carrozzina! Adesso è lui che fa gli esami. Ora che è mancato Giorgio mi è stato vicino. Ho vinto anche una coppa nel 1995, come prima classificata nella categoria donne in una gara. Eravamo solo in tre, non volevano nemmeno darci la coppa!
Amo cucinare, innanzitutto le specialità valtellinesi: gli sciatt, frittelle ripiene di formaggio, non facili da fare, e soprattutto i pizzoccheri. Quando sono stata in ospedale, mi sono trovata con altre 3 donne, tutte valtellinesi. Sono entrata in sala operatoria parlando di pizzoccheri! Il medico che mi ha operata è poi salito a Teglio e glieli ho fatti assaggiare. A San Giacomo c’è la scritta “Benvenuti nella patria del pizzocchero”, mentre a Teglio c’è l’Accademia del pizzocchero. Litigo con la mia amica perché ci mette anche la cipolla, perché così fanno in Val Brembana. Non ci vuole. Solo verze, patate, aglio, un po’ di pepe. Poi ci sono anche i miei vasetti, li portavo anche in oncologia quando era in cura Giorgio. Non era proprio un buongustaio, era per le cose normali, ma io ogni tanto cucinavo qualcosa di speciale. Faccio i peperoni piemontesi piccanti, la salsa verde, la bagna cauda, le acciughe nell’aglio e prezzemolo, che sono molto buone da mettere nei panini. Una volta partivano gliacciugatt dal cuneese, andavano in Liguria, là prendevano le acciughe sotto sale e poi venivano a venderle a Milano. Me ne ricordo uno, era anche un bel ragazzo, girava con il carretto, ma puzzava…Attraverso la cucina viene fuori il contatto con i luoghi significativi della mia vita: le acciughe e il Piemonte, i pizzoccheri e Teglio. Frequento al giovedì gli incontri dai “custodi sociali” e ogni tanto ho cucinato per tante persone: i pizzoccheri, i peperoni, la torta di pane…
Mi piace lavorare a maglia e all’uncinetto, mi hanno insegnato un po’ mia mamma e un po’ le amiche, non faccio cose belle belle ma mi arrangio. Ho fatto dei maglioni per la mia nipotina, glieli regalo a Natale. Uno le è piaciuto, un altro l’ha definito “retrò”…Ho fatto qualcosa anche come cucito, niente di che, ma l’idea di farcela mi dà soddisfazione. Ho cucito per Giorgia un abito in cotone bianco con il profilo in tulle, l’ha usato per la comunione.
Presso un negozio di Arese ho frequentato un corso per dipingere sulla ceramica, anche in questo caso l’ho fatto per me stessa, per tirarmi fuori un po’. Sono orgogliosa di esserci riuscita…Ho imparato e poi ho continuato da sola in montagna, perché ho scoperto che anche là c’era un forno. È un hobby durato 3, 4 anni, una volta alla settimana. La ceramica è impegnativa e poi è costosa, mi sono rimasti molti lavori, alcuni li ho appesi in casa.
A Trenno c’era un corso del Comune, una ragazza insegnava a disegnare sul tessuto: l’ho frequentato, ho fatto dei cuscini e ho preso la mano.
Da bambina curavo le bestie
Da bambina curavo le bestie, i pulcini, le galline. Quando mio nonno è tornato in Piemonte ci ha regalato un vitellino, io e mia cugina andavamo in stalla, a pettinargli la coda e la frangetta. Un anno ci ha regalato una capretta, avevamo appeso alla finestra l’uva per farla appassire, a un certo punto la capretta se l’è mangiata!
A Milano avevamo un cane chihuahua, di nome Paco, che poi è stato sbranato, era carino, era sempre attaccato a me, non riuscivo a staccarmelo da addosso nemmeno quando mangiavo, continuava ad abbaiare. Gli abbiamo fatto di tutto, per esempio si è addormentato in un carrellino della verdura, e gli abbiamo messo sopra una copertina. Poi, siccome di cognome facciamo Bassi, mio figlio ha comprato anche un bassotto. L’ha comperato nel negozio davanti al tribunale di Milano, piccolino, a casa correva e saltava, ma dopo solo due giorni è morto. Ho detto a mio figlio che era uno dei cani che vengono dall’est, aveva sofferto durante il trasporto. Il negoziante ha detto che fuori dal suo negozio lui non rispondeva più di nulla e di non fare niente nei suoi confronti, perché tanto aveva tanti amici avvocati. Siamo andati dall’Associazione che difende i diritti dei consumatori, combinazione l’avvocatessa che aveva preso questa pratica aveva un fidanzato che aveva già avuto a che fare con questo negoziante. Lui negava che i cani venissero dall’est, però ci ha dato un altro cane, anche se non più piccolo. L’abbiamo chiamato Pluto, ce l’abbiamo ormai da 12 anni. Lo porto su in montagna, tira come un pazzo. Se vede un cane grosso abbaia meno, ma se è al guinzaglio abbaia come un pazzo, se è slegato, no. In montagna dormivo con la porta aperta per farlo uscire a fare pipì, ma la nostra casa è riparata, ci si arriva con due rampe di scale.
Dal Gallaratese a Oxford all’India
Il mio primo viaggio in aereo è stato per andare a Oxford. La signora dietro a me sbuffava, aveva paura. Io no. Quando sono scesa ho ringraziato la hostess e le ho detto che era il mio primo viaggio. Quella signora mi ha detto: “ma come, il primo viaggio!”Oxford è una bella città, si gira a piedi, c’è il Tamigi. Si è sposato un cugino di mia nuora e mi hanno invitata. Ecco una foto con le damigelle con il cappello (gli uomini invece indossavano rigorosamente il tight).
Ricordo che facevano scommesse su tutto e che nei parchi c’erano i ricci, gli scoiattoli. La sorella della mia consuocera si era stancata di stare a Oxford, ha venduto la casa ed è tornata in Sicilia, poi si vede che non trovava lavoro e ha deciso di tornare ancora a Oxford dopo qualche anno: c’era ancora in vendita la sua casa e l’ha ricomprata!
Poi ho iniziato a viaggiare, insieme a due amiche, Virginia e Marina. Eravamo sempre in gruppo insieme, quasi sempre dormivamo anche nella medesima stanza. Ci siamo trovate bene in tutti i viaggi, anche con gli accompagnatori. Mio marito non veniva, ma mi lasciava andare. La crociera sul Nilo è stato il primo viaggio, bellissimo, nel 2004. Era il mio sogno, mi è costato 1200 euro. Ricordo che mi hanno messo in testa un piccolo coccodrillo!
Nel 2005 sono andata in Marocco. C’è una piazza enorme a Marrakesh e qui mi hanno messo un serpente al collo! Siamo stati sull’Atlante e nei luoghi dove è vissuto Lawrence d’Arabia, in Giordania. Nel deserto le guide hanno steso sulla sabbia rossa tappeti e cuscini, poi abbiamo mangiato patatine fritte e lenticchie. È stato bello. Una mattina siamo partiti alle 4, con il cammello. Un ragazzo mi ha tenuto per tutto il tempo la gamba, si vede che aveva paura che cadessi. Ho comprato dei fossili, abbiamo visto degli enormi cedri del Libano.
Nel 2006 abbiamo fatto una crociera, in Grecia e ad Alessandria d’Egitto, dove ci sono resti archeologici molto belli.
Nel 2007 sono stata in Terrasanta: è stupenda, al di là delle religioni, siamo andati con il nostro sacerdote. Il signore che ci accompagnava era palestinese, arrivava tardi perché per dispetto lo fermavano ai check-point. A Betlemme mi sono persa nella chiesa della Natività, hanno detto “aspettate qua” e sono spariti tutti! Allora sono andata nella sacrestia, poi però son venuti a riprendermi. Abbiamo visto il posto dove si dice che Gesù si è fermato perché era stanco e ha lasciato il segno…
Nel 2008 ho visitato la Giordania. Ad Amman, la capitale, sono caduta di faccia, la sera quando sono arrivata. Hanno i marciapiedi alti, ho messo fuori il piede e ho detto “come è alto!”, intanto sono finita in mezzo alla strada, ho rotto persino le scarpe. Mi è venuto un ematoma nero sotto gli occhi! Ricordo un altro episodio: c’era un ragazzo che dava da mangiare a un asino. Gli ho detto:“adesso glielo do io”. Gli ho porto la mano, e mi ha morsicata! Il nostro accompagnatore mi ha detto: “essere morsicata da un asino è già il massimo, da un asino turco, poi!”. Insomma, un incidente in ogni viaggio e quando non sono caduta io è caduta la mia amica. Siamo state anche a Petra, che è stupenda.
Nel 2009 sono andata in Turchia: ricordo che a Istanbul c’erano tutti i tulipani fioriti, una cosa stupenda! Nello stesso anno sono stata anche in India, nel nord, nella regione del Ragistan. C’erano enormi campi di senape fiorita, tutti di giallo. Abbiamo visitato il Taj Mahal, il grandioso edificio che nel 1632 l’imperatore moghul Shah Jahan fece costruire in memoria della moglie preferita. Non è vero che non hanno da mangiare, solo hanno molte prescrizioni religiose: quello che viene sottoterra non lo mangiano perché se no si distrugge la terra, quell’altro non lo mangiano perché se no non si dà da mangiare agli animali di sopra…
Abbiamo visitato il tempio di Karni Mata, quello in cui sono venerati migliaia di topolini, ci ha portato il nostro accompagnatore. Ci hanno dato delle babbucce per entrare, ci sono le reti per non far scappare i topi. I guardiani li curano e gli danno da mangiare. Gli danno il latte da bere e poi quello che avanza lo danno alle donne che hanno i bambini ammalati, pensano che sia benedetto. Ci hanno raccontato che un tempo in quella regione erano morti molti bambini e che l’anno successivo c’erano stati tanti topi; siccome credono nella reincarnazione, hanno pensato che fossero i bambini reincarnati e così li venerano.
In India non hanno veri e propri negozi, dietro a un albero c’è chi taglia la barba o i capelli, ogni tanto ci sono spruzzi d’acqua e lì la gente si lava. Sul marciapiede c’è un ruscello: la fogna. Sono poveri, ma tutti con il cellulare in mano. Siamo andati a vedere dove è morto Gandhi. Gli uomini non fanno niente, stanno seduti fuori dai bar, c’è sporcizia…Un vitello ha visto da lontano che avevo una borsetta in mano, io ho tirato fuori da mangiare ma quando ha visto che non avevo più niente se ne è andato. La mia amica andava in giro con un pacchetto di caramelle e le dava ai bambini. L’abbiamo chiamata “signora bon bon”. Siamo andate anche in groppa all’elefante: tutti avevano i piedi da appoggiare, tranne io, traballavo e basta. C’erano i petali dei fiori nell’acqua. Abbiamo incontrato due giovani sposi, lui aveva 17 anni e lei 15, con l’abito rosso che distingue appunto la giovane sposa. Vivevano in una sola stanza, con tutti i pochi oggetti che avevano. La ragazza doveva mettersi il velo perché era bella e doveva nascondere la sua bellezza davanti alle altre donne, zie, nonne…Lei aveva anche il tilaka, il segno rosso che si mettono sulla fronte le donne per indicare che sono sposate. Abbiamo visitato anche un istituto delle suore di Madre Teresa: che pena, è un orfanotrofio.
L’ultimo viaggio l’ho fatto in Russia nel 2010, san Pietroburgo è stupenda. Le mie amiche sono andate anche in Myanmar, in Vietnam, in Iran… Quasi tutte le domeniche con le mie amiche, c’è anche Angela, ci troviamo e giochiamo a scala o a burraco, a casa mia. Da quando è mancato mio marito non mi hanno abbandonata.
E così questa storia prende il titolo da una luna gialla: una luna che ha il colore del taxi guidato per tanti anni da Loredana. Una luna che rappresenta anche i tanti sogni, che ancora le rimangono…Mi chiedo se si tratta di una luna di montagna o di città…
Mi piace immaginarla su entrambi gli sfondi, a sintetizzare la storia di Loredana, che anche in questo è un po’ doppia: montagna e città, giallo e blu, a raffigurare una donna pienamente tale ma capace anche di conquistarsi spazi in contesti solitamente maschili…Mentre aggiungo queste poche righe alla storia che Loredana mi ha regalato, mi viene in mente un passo del romanzo “La luna e i falò” di Cesare Pavese: «Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Pavese veniva dalle Langhe e sognava l’America; Loredana ha abitato in città senza mai scordarsi delle proprie radici, di collina e soprattutto di montagna…Oggi che ho conosciuto qualcosa della tua storia, cara Loredana, posso dire di sentirmi anch’io un po’ meno solo. E di ciò ti ringrazio!